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 La zuffa del Caucaso: la crisi dei territori contesi

Le ostilità del Nagorno Karabakh tornano a esplodere, rischiando di trascinare nella disputa fra Baku ed Herevan altri attori internazionali. Creando una nuova sacca di tensione alle porte dell'Europa

Probabilmente, fino a qualche giorno fa, un nome come Nagorno-Karabakh non avrebbe richiamato nulla, per chi non fosse del settore. Oggi, a seguito della parola data alle armi, i territori del Caucaso si prendono la ribalta internazionale, rischiando di richiamare sulla scena militare attori che porterebbero la locale contesa sui monti dell’entroterra armeno a divenire un possibile elemento di destabilizzazione geopolitica. L’Azerbaigian, che punta a ri-legittimare l’altopiano posto nel suo territorio, e l’Armenia che ne rivendica la responsabilità di Herevan di difenderne gli abitanti, quasi per la totalità armeni: attori finora protagonisti del contendere, come lo erano stati a inizio anni Novanta e, ciclicamente, nei periodi in cui la quiescenza sul Nagorno Karabakh era tornata a esplodere. Potrebbero non essere gli unici però. Perché la questione irrisolta dei territori contesi non è quasi mai un affare solo interno.

Dopo i grandi blocchi

La disgregazione dell’Unione Sovietica di questioni borderline ne ha create diverse. Così come lo smantellamento dei grandi blocchi che cessarono all’indomani della Guerra fredda. Ma se in territori come i Balcani la fine dei super-Stati hanno creato sacche di tensione politica legate soprattutto al destino di alcuni territori come il Kosovo, nella regione caucasica le ragioni del contendere affondano le proprie radici in un’epoca ben precedente alla creazione del blocco sovietico.

Anche se, in realtà, la violenza vera e propria è esplosa sul finire del XX secolo, quando apparve chiaro che la fine dell’Unione Sovietica non aveva stabilito quale sarebbe stato il destino del Nagorno Karabakh, inquadrato nei nuovi e sciiti territori azeri, nonostante la quasi totalità dei suoi abitanti fosse armena e cristiana. Una ragione sufficiente, nel 1992, a dare il là a due anni di conflitto, mentre la neonata e autoproclamata Repubblica dell’Artsakh (altro nome del Nagorno Karabakh) si dichiarava indipendente dall’Azerbaigian.

La contesa del Nagorno Karabakh

“La Guerra fu vinta dall’Armenia – ha spiegato a Interris.it Nona Mikhelidze, Responsabile del programma Europa orientale e Eurasia dello Iai – che in più ha occupato sette regioni adiacenti al Nagorno Karabakh, per garantire la sicurezza del popolo armeno. Riconosce che i territori sono dell’Azerbaigian ma precisando che li libererà solo quando gli azeri ne riconosceranno l’indipendenza. Questione su cui Baku non vuole retrocedere. Dal 1994 c’è in mezzo questo ‘cessate il fuoco’ che ogni tanto viene violato da una parte piuttosto che dall’altra. Sempre difficile identificare chi ha sparato per primo”. Una recrudescenza mai sopita e che, più o meno regolarmente, torna a galla con intensità differenti. L’ultima volta fu nel 2016 ma oggi è diverso: “E’ una crisi militare più grande delle precedenti. Le motivazioni di Armenia e Azerbaigian sono sempre le stesse ma è cambiato il contesto. Di mezzo c’è una nuova Turchia”.

La variabile turca

La variabile imprevista (e anche imprevedibile) sono ancora una volta gli attori internazionali. Coloro che, realmente, sono in grado di spostare il peso della contesa su un piano geostrategico. Nel quale il domino delle alleanze storiche tirerebbe per la giacca protagonisti capaci di sovvertire l’ordinario oggetto della frizione. “Erdogan è molto più operativo di prima, sia in Medio Oriente che nel Mediterraneo. Non lo è mai stato nel Caucaso, lasciando che fosse zona d’interesse politico russo. Se da sempre ha sottolineato il suo appoggio agli azeri, con cui c’è sempre stato un appoggio strategico, nello stesso tempo ha richiamato al cessate il fuoco. Pur precisando che la Turchia sosterrà l’Azerbaigian e che l’Armenia minaccia la pace nel Caucaso“.

Disseppellendo ulteriori dissapori: “La narrativa per gli armeni, che già covavano ruggini con Ankara per la questione del genocidio, è che devono combattere sia con Baku che con Erdogan”. Il tutto in una fase in cui prove effettive del coinvolgimento militare turco ancora non ci sono: “L’obiettivo del presidente azero Aliev è di riconquistare solo alcuni territori, non il Nagorno Karabakh ma alcuni villaggi delle regioni adiacenti per reclamarlli a uso interno. Può darsi che in questo ci sia un aiuto della Turchia”.

Il domino dell’alleanza

Ma la questione alleanze è in alcuni casi molto più semplice: “La Russia è il principale alleato dell’Armenia nella regione. Negli ultimi anni ha cercato di sviluppare un rapporto. Il punto è che, nonostante sia l’alleato principale di Herevan, vende le armi all’Azerbaigian che, addirittura, ne acquista più dalla Russia che dalla Turchia”. Un doppio gioco, sostanzialmente, “fatto già durante la guerra a inizi anni Novanta quando vendeva armi a tutt’e due le parti”. Come in Libia, però, l’eventuale intervento turco, al netto degli appelli per la pace nella regione, presumerebbe una risposta russa stavolta vincolata da accordi ben precisi. “Mosca sarebbe obbligata a difendere l’Armenia in caso di attacco esterno, fa parte di un’organizzazione di sicurezza e scatterebbe un articolo simile a quello 5 della Nato. Il fatto che l’Azerbaigian, Paese ricco di risorse energetiche, non decide di lanciarsi in una guerra, dipende proprio dall’intervento automatico della Russia”.

Due scenari

Al momento Mosca resta neutrale, perseguendo la via ufficiale che vuole i territori di Nagorno Karabakh rientrare sotto l’egida azera. Rispetto al Donbass o alle dispute dei filorussi in zone come la Transnistria, in Moldavia, quello del Caucaso “non è un conflitto congelato. Ma in anni o addirittura mesi ci ritroviamo nei combattimenti. Il primo scenario possibile dice che il conflitto durerà alcuni giorni per poi concludersi con Baku che riprenderà i territori. Il secondo, parla di una guerra aperta che sarebbe catastrofica, perché coinvolgerebbe due attori globali come Turchia e Russia. Ma è anche vero che, “come visto in Siria e in Libia, pur avendo interessi conflittuali o paralleli, questi non siano mai arrivati al conflitto, riuscendo sempre a trarne guadagno”.

Territori contesi

Forse per questo il Caucaso non diventerà teatro di guerra. Ma, come avvenuto anche per la questione Kosovo e, forse ancora di più, nel Donbass falcidiato dalla guerra per l’annessione della Crimea, la nuova crisi certifica un nuovo fallimento della Comunità internazionale: “Avrebbe dovuto impegnarsi di più – ha concluso Mikhelidze -. Mi domando se sostituendo gli attori e coinvolgendo altri Paesi possa venire fuori un piano di pace”.

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