La “terza guerra mondiale a pezzi” di cui parla papa Francesco è uno scenario articolato e sfaccettato, purtroppo sempre attuale. Nel 2021 le guerre risultano in calo rispetto alle otto del 2020, cinque (il numero più basso dal 2010) sui 54 conflitti in corso in cui è coinvolto almeno uno Stato. La violenza si sposta dal Medio Oriente, dove la situazione è tornata ad aggravarsi nel caso dell’Afghanistan, al continente africano, che resta quello con la maggior quantità di conflitti statali. Sono questi i dati del progetto di ricerca Conflict Data Program dell’università svedese di Uppsala, che da quasi 40 anni raccoglie informazioni e studia i vari tipi di scontri armati nel mondo. A questo quadro si aggiungono la guerra che si combatte in Ucraina da oltre un anno e lo scontro tra i governativi e i paramilitari in cui è precipitato il Sudan pochi mesi fa. La parola “pace” sembra esser scivolata sullo sfondo. Per rimetterla in primo piano a livello globale serve l’impegno di tutti, a partire da quello locale. “La pace comincia con me” è il tema dell’edizione di quest’anno della Giornata internazionale delle forze di pace delle Nazioni unite. Coloro che da 75 anni contribuiscono alla protezione dei civili, alla difesa dei diritti umani e dello stato di diritto, alla scelta della strada delle soluzioni politiche. Come loro, ciascuna persona può partecipare alla costruzione della pace, che si realizza insieme.
L’intervista
L’intervista di Interris.it al portavoce della Comunità di Sant’Egidio Roberto Zuccolini per parlare dell’impegno per la pace.
Per la Comunità di Sant’Egidio la guerra è la madre di tutte le povertà: che significa per un Paese trovarsi in una situazione simile?
“Questa definizione, che è di Andrea Riccardi, l’abbiamo verificata e costatata. Oggi le guerre si stanno eternizzando. Quella in Siria dura da 12 anni e non se ne vede la fine: il Paese è da ricostruire, al nord si continua a combattere e ci sono migliaia di profughi siriani in Medio Oriente. Solo il Libano ne ospita un milione. Oltre alla durata nel tempo, una guerra causa vittime di cui tante volte non si ha contezza, soprattutto nei Paesi più lontani dai ‘riflettori’, e profughi, sia interni che esterni. Tornando all’Ucraina, gli sfollati interni sono oltre cinque milioni, mentre circa otto milioni hanno dovuto abbandonare il Paese. Un conflitto provoca inoltre una battuta d’arresto e l’arretramento dell’economia, e quando si parla in Paesi in via di sviluppo questo può significare scivolare indietro di diversi anni. Un’altra ‘eredità’ della guerra, uno dei suoi ‘regali avvelenati’, sono quei pericoli come le mine antiuomo che restano nel terreno per anni. Inoltre c’è sempre il rischio, questo non va dimenticato, che i conflitti si allarghino alla regione. Basti pensare alla cosiddetta prima guerra mondiale africana che vide oltre al Congo e al Ruanda vide l’intervento dii Paesi intorno si sono schierati chi con una fazione e chi con l’altra”.
In questa parte del mondo probabilmente ignoriamo tante guerre che non sono raccontate, ma spesso i loro effetti finiscono per riguardarci. Quali sono i riflessi che hanno su di noi?
“La guerra in Ucraina lo ha fatto capire subito: si è creato il problema della mancanza grano e questo ha significato per l’Europa un aumento prezzi, mentre per l’Africa, maggiormente dipendente dal grano ucraino e in parte da quello russo, il raddoppio dei costi dei generi alimentari e anche la penuria di molti beni di base. Un altro effetto sono le migrazioni, che rappresentano anche una perdita di risorse umane per i luoghi che lasciano. Il discorso di papa Francesco che non ci si salva da soli è valido anche nei confronti della guerra: non possiamo fare finta che i conflitti negli altri Paesi non esistano, perché un giorno o l’altro presentano il conto anche a noi”.
Lo scorso ottobre Sant’Egidio ha dato vita all’evento “Il grido della pace”, concluso con la cerimonia finale al Colosseo. Al centro dell’iniziativa l’incontro e il dialogo interreligioso. Qual è allora la vostra “ricetta” per la pace?
“E’ stato un incontro secondo lo ‘spirito di Assisi’, la grande preghiera di San Giovanni Paolo II e degli altri leader religiosi tenutasi nella città umbra nel 1986. La Comunità ha scelto di raccoglierne l’eredità portandola nelle varie capitali europee e costruendo una rete di personalità, religiose e laiche, per il dialogo e per la pace. E’ una rete collaudata, che esiste da anni e ha portato frutti importanti. Il Santo Padre Francesco ha partecipato tre volte a questi incontri, l’ultima proprio nella scorsa edizione. Il dialogo fra le culture, fra i popoli, fra le istituzioni è oggi necessario come il pane in questo mondo. Il dialogo dà al mondo quel respiro che tante gli volte manca. Oltre 30 anni fa, ‘a mani nude’ facemmo terminare una guerra in Mozambico che durava da 16 anni e aveva causato più di un milione di morti”.
Come si può partecipare attivamente alla costruzione della pace, partendo dal livello locale e arrivando a quello globale?
“Come cristiani possiamo intanto partecipare con la preghiera. Una volta al mese nelle comunità della Sant’Egidio si tiene la preghiera per la pace, ricordando i Paesi in guerra, dove ci sono conflitti o violenza. Ricordare è importante, perché troppo spesso ce ne dimentichiamo e questo aumenta l’indifferenza. C’è poi l’impegno quotidiano, la Comunità è presente in oltre 70 Paesi in Asia, Africa e America latina per provare a colmare le diseguaglianze che spesso generano incomprensioni e violenze. Siamo vicini ai prigionieri e ai detenuti, agli anziani, ai bambini, a chi vive in strada. Si può partecipare anche alzando la testa e interessandosi a ciò che accade nel mondo. Le nostre comunità in Ucraina, per esempio, cercano di dare una mano e di sviluppare la solidarietà. La pace è troppo importante per lasciarla solo in mano altrui, bisogna lavorare per essa con convinzione e passare da una logica militare a una politica per risolvere i conflitti”.