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Voci dell’esperienza: testimonianze a In Terris della terza età “rosa”

Il Novecento nei racconti di donne anziane che trasmettono alle nuove generazioni la "civiltà della pace"

Voci di esperienza, voci di speranza. Rievoca Maria Rosa: “Allora si lavorava molto. Io mi sono cucita da sola tutto il corredo. C’era la povertà ma c’era anche la generosità. Mia madre, per esempio, che aveva il mulino dell’olio, lasciava da parte tutti gli anni una damigiana di olio e a Natale lo donava ai poveri. Arrivato il momento lo metteva nelle bottiglie e mandava me che ero la più piccola a portarlo nelle case di quelli che avevano bisogno. Siccome di bottiglie non ce n’erano tante, ogni volta che andavo in una famiglia aspettavo che me la vuotassero per riportarla indietro. Non è come adesso che si butta via in continuazione. Ai poveri, d’inverno, si portavano anche gli “ossi” cioè i noccioli puliti delle olive che si bruciavano per riscaldarsi. Li davamo via a sacchi. Mia madre però raccomandava a chi li portava di dire prima alle persone interessate che avrebbero lasciato il sacco in fondo alle scale e che il vuoto potevano restituirlo quando volevano. Lo faceva per non offendere chi li riceveva e perché non si sentissero obbligati a dire grazie. Adesso invece se uno ti da un euro lo deve scrivere cento volte per sottolineare che te le ha dati. Quante altre cose si davano ai poveri! Ricordo che quelli di casa mia mi mettevano addosso una sciarpa, visto che i cappotti quella volta non c’erano. E mi mandavano a portare la roba facendomela nascondere sotto la sciarpa per non farla vedere alla gente. E io andavo bussando alle porte”.

Diana
Foto di Goran Horvat da Pixabay

Forza e resilienza

Tutte le donne anziane vissute nel ‘900, disponibili a narrare se stesse, possono essere definite resilienti. Hanno avuto la capacità di trarre forza positiva anche dagli eventi più negativi e stressanti come la guerra. La resilienza con cui hanno vissuto la loro giovinezza, il matrimonio in tempo di guerra. E la vecchiaia, poi, nelle case di riposo o in famiglia ha orientato in positivo, di tappa in tappa, la prospettiva della vita, rivelando a loro stesse delle forti capacità nell’affrontare l’esistenza con dignità e coerenza. Hanno potuto mettere in atto potenzialità che non sarebbero state facili rivelare in situazioni di vita del tutto favorevoli. Con sguardo sereno e occhi lucidi hanno testimoniato un profondo desiderio di depositare la bellezza della vita e il sacrificio nel cuore dei loro nipoti e delle future generazioni. Ascoltiamo alcuni tratti dai loro racconti. Angela, Iole, Francesca, Rosa, Lina testimoniano una forza arrivata da dentro e che le ha portate a trasformare il dolore in risorsa, la povertà in ricchezza, la sottomissione in armonia nella relazione di coppia, il duro lavoro in capacità di sostenere la famiglia, la rigida educazione religiosa ricevuta dalla Chiesa in fedeltà a grandi valori del matrimonio e alla moralità di costumi. Hanno tratto beneficio da quello che può sembrare a noi oggi solo qualcosa di negativo. La resilienza con cui hanno vissuto la loro giovinezza, il matrimonio in tempo di guerra e la vecchiaia nelle case di riposo o in famiglia ha orientato in positivo, di tappa in tappa, la prospettiva della vita, rivelando a loro stesse la capacità di affrontare l’esistenza. Hanno potuto mettere in atto potenzialità che non sarebbero state facili rivelare in situazioni di vita positive. Testimoni che gettano un ponte fra passato e futuro. Sono le protagoniste del libro “Donne anziane, ritratti femminili del ‘900″ (Ed. Prospettiva), scritto da suor Anna Maria Vissani.

Copyright: Luca DElpriori

Voci di saggezza

Il filosofo Duccio Demetrio, fondatore della Università dell’Autobiografia, afferma: “Narrare la propria storia di vita significa ripercorrerla, elaborarla, riconfigurarla. Donandole un senso, rilevando luci e ombre che l’hanno accompagnata e che altresì abitano nell’abisso arcano e misterioso di ciascuno di noi”. Parlare di sé implica riprendere contatto con se stessi e conduce a sentire di esserci, a ritrovare i propri confini, non solo fisici, ma soprattutto psicologici, che spesso si smarriscono nel flusso inarrestabile di vite trascorse ma vissute inconsapevolmente. Non può cancellare il dolore o la sofferenza, ma può essere almeno un modo per prenderne le distanze, per mettere un punto. Scrive Angela di Ascoli Piceno: “Mi sono sposata a 20 anni il 2 dicembre… poi a maggio mio marito è stato richiamato sotto le armi ed è dovuto partire per la guerra. È stato fuori sei anni. Per tre anni ci siamo solo scritti… Durante la guerra, in famiglia era rimasto, oltre mio suocero, anche un fratello di mio marito che aveva 14 anni… l’ho tirato su io, gli ho fatto da mamma. Dopo la guerra ho visto molto benessere e anche noi siamo riusciti a costruire la casa”. Racconta Iole di Pesaro: “Ho vissuto una giovinezza poco bella. Ho perso i miei genitori quando ero poco più che ragazzina. Fin da giovane ho dovuto lavorare molto. Anche da sposata non ho potuto fare a meno di faticare per guadagnarmi la vita. Ho fatto diversi lavori: la contadina, l’operaia presso le industrie dei cavoli etc…Dovevamo raccoglierli e metterli nelle cassette per spedirli nei camion. In questa zona c’è sempre stata la coltivazione dei cavoli. Ho fatto anche la magazziniera. Ma il periodo più lungo è stato quello del lavoro presso la fornace di mattoni. Era molto duro. In compenso i padroni mi volevano bene. Quando i mattoni uscivano dalla fornace erano bollenti e si può immaginare il pericolo di scottature. Ma quello era il lavoro offerto a noi donne per guadagnare. Il padrone ci diceva: ‘Ragazze, se ben cominciate, vi troverete bene nella vita e riuscirete a restare in questo posto per molto tempo’. Infatti fu così. Cercavo di non perdere mai tempo; lavoravo senza chiacchierare. Così producevo molto. Mi sentivo ben voluta“.

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Roma 26/11/2016 – Manifestazione contro la violenza sulle donne / foto Insidefoto/Image
Nella foto: manifestazione violenza donne

Voci di pace

Francesca di Macerata: “Ci sposammo e dopo pochi mesi di matrimonio mio marito è dovuto partire per la guerra mentre io ero già incinta della nostra prima bambina. Prima di andare in Albania per la guerra, mio marito riuscì a vedere la bambina. Tornò dopo tre anni. Io, durante quel periodo, piangevo sempre perché non si sapeva come sarebbe andato a finire. Mi consolava solo il pensiero che avevo la bambina e sapevo che lui le voleva molto bene e voleva bene anche a me. Più tardi gli diedero una licenza per una operazione di ernia che doveva fare. Tornò a casa e io rimasi incinta una seconda volta. Durante la guerra i Tedeschi passavano per le case di campagna. Così per non correre pericoli andai a stare da mia madre e lì mi nacquero due gemelle con un parto prematuro, all’ottavo mese di gravidanza. Erano piccolissime. Le battezzammo subito perché il medico aveva detto che sarebbero morte. Il giorno dopo il parto fummo costrette ad andare nel rifugio. Io misi le due gemelle in una scatola di scarpe di mio marito tanto erano piccole e ci nascondemmo. Passai tutta la notte sveglia perché avevo paura che le gemelle morissero. Invece sono vissute, anche perché ho dato loro il mio latte visto che ne avevo parecchio. Poi le bombe rasero a terra la casa dei miei suoceri. Non avendo più la casa dove ero vissuta da sposata rimasi da mia madre. Finita la guerra, quando le bambine avevano tre mesi, tornammo nella nostra casa. In quel periodo passavano i tedeschi in ritirata. Carri armati e soldati. Un soldato venne da me, in camera e mi chiese di lasciargli una bambina, visto che ne avevo due. Una la voleva portare alla sua mamma perché le piacevano i bambini. Quella volta mi spaventai moltissimo. Chiamai i miei familiari, mi alzai in piedi e stappai via la bambina per difenderla”.

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Foto di micheile henderson su Unsplash

Testimoni di vita

Rosa di Jesi: “Se non fosse stata la guerra saremmo vissuti bene. La guerra ci ha sepolti tutti. Noi poi che stavamo di casa vicino all’acquedotto che faceva rumore, non sentivamo neanche l’allarme e chiedevamo alla comare di avvisarci. Un giorno, mentre scappavamo siamo stati sepolti dalla terra alzata dalle bombe. Abbiamo trovato le zolle di terra persino in soffitta”.  Lina di Tolentino: “Ho vissuto il giorno del matrimonio come un giorno di dolore, perché era durante la guerra. Dopo un mese, infatti, mio marito è ripartito, è andato alla Marina di Rimini. La fortuna è stata che tornato dall’Albania non è più ripartito. Da Rimini veniva qualche volta perché lo chiamavo con la scusa che i genitori stavano male. Almeno potevo vederlo. Poi alla fine della guerra tornò finalmente. La guerra fu molto brutta. Mio marito mi diceva di non uscire neppure per chiudere i polli. Cenavamo allo scuro quando c’erano i bombardamenti. Vedevamo volare le pallottole da un colle all’altro“. Oggi siamo tutti testimoni di tanta violenza sulla donna: violenza fisica, psicologica, sessuale, economica, sociale. La società dei consumi ha sempre guardato più al corpo che all’anima della donna. Così facendo l’ha resa, in qualche modo, schiava e priva dei suoi diritti inalienabili di persona umana capace di essere all’altezza della vita. “Una storia scritta al femminile rivelerebbe il tesoro nascosto dei sentimenti forti, soprattutto quelli destinati a costruire relazioni e capacità di amare, tessere amicizie e difendere la pace. Potrebbe essere solo una storia di famiglia ma pur sempre una storia dentro la grande storia. Come poter costruire oggi la pace e aprire le porte alla speranza? Arriverà l’era della nuova storia al femminile?”, si chiede suo Anna Maria Vissani. La donna si situa nel grande disegno della creazione come portatrice del “femminile”. La sua peculiare capacità di accoglienza, ascolto e recezione la rendono capace di essere più prossima alle radici della vita, dove fluisce l’acqua più pura del desiderare umano. Aperta alla vita in virtù della sua specifica natura, ella è ancora capace, nell’oscurità degli anni, di concepire, di prevedere, di dare alla luce germi di speranza e gratuità. “Nella sua anzianità ella rimane creativa e feconda. Nel silenzio dei giorni che passano continua ad accogliere nel suo grembo la vita che ha generato o desiderato; nella solitudine e nello spazio della sua casa o soltanto della sua camera, continua a circondarsi di ricordi e di affetti, con il desiderio di dare vita a coloro che porta nel cuore, perché frutto del suo parto“, conclude la responsabile del centro di spiritualità sul Monte.

 

 

 

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