L’Organizzazione Mondiale della Sanità ha definito la violenza sulle donne: “Una pandemia invisibile continua nel tempo e nelle culture”, considerato il suo protrarsi nella storia, aggravata quest’anno dagli effetti di quella da Covid-19.
La legge n. 69/2019, nota come “Codice Rosso”, è un provvedimento volto a rafforzare la tutela delle vittime dei reati di violenza domestica e di genere, inasprendone la repressione attraverso interventi sul codice penale e sul codice di procedura penale. Sono quattro i nuovi reati che ha introdotto: dal revenge porn alla violazione dei provvedimenti di allontanamento dalla casa familiare o di avvicinamento alla vittima, dalla costrizione al matrimonio alle lesioni permanenti al viso.
In Terris, vista l’importanza e l’attualità del tema, ha deciso di intervistare il Giudice presso la Prima Sezione Penale del Tribunale di Roma Dott. Valerio de Gioia e la Psicologa Criminologa Dott.ssa Flaminia Bolzan.
Dott. de Gioia, è passato più di un anno dall’entrata in vigore del cosiddetto Codice Rosso. Ci sono stati già effetti tangibili? O ancora è troppo presto per un bilancio concreto?
“L’anno scorso con l’entrata in vigore, il 9 agosto, del Codice rosso sembrava dovessero risolversi tutti i problemi, cioè ci saremmo dovuti incontrare quest’anno e dire: «guardate come i numeri dei reati rispetto a quelli degli altri anni, non soltanto del femminicidio, che è il reato più grave, ma anche dei reati minori come quelli di violenze di genere, di maltrattamenti in famiglia, di atti persecutori, si sono drasticamente ‘ridotti’». Invece, purtroppo, oggi noi ci confrontiamo e dobbiamo prendere atto di un bilancio drammatico, che anche quest’anno ci ha restituito la cronaca, oltre che i dati dell’Istat. Non mi meraviglio, però, di questo perché quando è stato varato questo importante intervento legislativo, che per le finalità perseguite era un provvedimento impeccabile, non si è tenuto conto del fatto che l’inasprimento, per esempio, del regime sanzionatorio per fattispecie di reato come queste, che sono legate a situazioni di amori malati non rientra in una valutazione che può fare il soggetto autore, il maltrattante, lo stalker, l’assassino. Vi garantisco che il soggetto che commette questi reati, difficilmente, valuta questi incrementi del regime sanzionatorio.
Indubbiamente l’aumento delle pene, per esempio, per la violenza sessuale – che adesso vede una pena minima di sei anni e quella massima di dodici anni – ha degli effetti significativi anche perché l’eventuale riduzione della pena, poi, difficilmente potrà fare accedere ai benefici di legge. Però, per il resto quest’intervento legislativo, imposto peraltro da obblighi che noi avevamo a livello internazionale da una sentenza di condanna, Talpis contro Italia, del 2017 che aveva visto l’Italia inadempiente e soprattutto poco protettiva delle sue vittime in quella fase delicatissima, che va dalla denuncia all’inizio del procedimento, non ha dato i risultati sperati. La colpa non è né del legislatore, né del giudice. La colpa è di un fenomeno che deve essere combattuto anche sotto altri fronti, probabilmente sotto l’aspetto di un’educazione sentimentale. Il fatto che, per esempio, nel corso dei procedimenti che io celebro per violenza sessuale spesso l’imputato viene in udienza e reputi normale l’aver costretto la compagna o la moglie a intrattenere rapporti sessuali contro la sua volontà, e dice: «ma è mia moglie», questo dà l’idea di quanto sia sbagliata la mentalità o la cultura. Non sto parlando di un imputato di un altro Paese che, casomai sulla base di imposizioni sociali o religiose, può errare nella percezione delle regole giuridiche. Sto parlando di imputati del nostro Paese. Questo è l’aspetto più terrificante.
Certamente, nell’aumento di questi numeri ha influito il Covid. È evidente che, nel periodo del lockdown, le convivenze forzate, che hanno visto i maltrattanti in stretto contatto con la persona maltrattata, hanno incrementato dinamiche e violenze che non si compongono soltanto di aggressioni e di violenze fisiche, ma spesso di violenze psicologiche che sono altrettanto gravi e pesanti. E, inoltre, il lockdown ha incrementato il drammatico fenomeno della violenza assistita. I minori, che andavano a scuola e che frequentavano le attività extra scolastiche durante il pomeriggio, si sono trovati all’interno di abitazioni ad assistere pesantemente all’incremento di queste situazioni, di queste condotte violente”.
Dott.ssa Bolzan, in che misura essere cresciuti in una famiglia, violenta e conflittuale, può indurre un soggetto a esercitare violenza sulle donne? La scuola può sopperire alle mancanze della famiglia, educando sul tema?
“L’inasprimento delle pene di per sé non è sufficiente a fungere da deterrente, perché un comportamento di questo tipo può essere un comportamento appreso. Il fatto di vivere nell’ambito di un ambiente conflittuale dove la modalità di relazione, che si vive quotidianamente e, quindi, che si apprende, passa attraverso l’umiliazione, il maltrattamento, il non rispetto, la denigrazione, è un qualcosa che poi si riporta anche nelle proprie relazioni personali che si vivono nel momento in cui si diventa adulti. E allora quanto conta la famiglia? Quanto conta l’ambiente familiare? Facendo un ragionamento a spettro piuttosto ampio, in un’ottica biopsicosociale, quindi analizzando i fattori sociali, possono incidere molto. E la scuola in tutto questo come può intervenire? Il Dott. De Gioia prima ha parlato dell’importanza di una buona educazione sentimentale e io sono pienamente d’accordo su questo aspetto.
Mi preme introdurre ora un tema che mi è particolarmente caro, quello dello stereotipo. Quanto viene utilizzato lo stereotipo per categorizzare, ad esempio, le donne e quanto questo sia un modo eccessivamente semplicistico di interpretare la figura femminile? Noi dobbiamo andare a ricostruire tutto questo e, quindi, a creare una narrazione che possa inserire degli elementi di natura differente. Una narrazione che possa promuovere la valorizzazione della donna. In questo la scuola chiaramente ci aiuta, perché due presidi educativi principali possono essere proprio la scuola e la famiglia. Allora non solo l’educazione sentimentale, non solo un’educazione di genere, ma anche la promozione di quelle che sono le competenze. La possibilità di dare, ai ragazzi e alle ragazze, gli strumenti per costruire un’immagine di sé differente. Differente da quelli che sono gli stereotipi.
Il fatto di aiutare, soprattutto le ragazze, prima che possano diventare le potenziali vittime di queste violenze, a credere maggiormente in loro stesse e, soprattutto, a credere al fatto che un sistema può funzionare. Le persone a volte non denunciano perché hanno paura, perché si vergognano, perché pensano che poi di fatto la giustizia non funzioni. E noi oggi dobbiamo, invece, rassicurare le persone, in quanto gli interventi e gli strumenti, per poter non solo sanzionare, ma anche prevenire tutti questi comportamenti ci sono e vogliamo dirlo a gran voce”.
Dott.ssa Bolzan, nel Codice rosso è previsto il percorso terapeutico, esistono solo piani di trattamento standard o è prevista anche una personalizzazione della terapia?
“I piani dovrebbero essere necessariamente standardizzati, poi di fatto possono differire in qualcosa, ma per un motivo molto semplice, perché dovrebbero poter rispondere a delle linee guida e tutto quanto il procedimento dovrebbe essere monitorato, perché chiaramente differentemente da quello che può avvenire in un setting psicoterapeutico classico dove il percorso segue un modello, segue una metodologia ben precisa, ma estremamente individualizzato rispetto a quelle che sono le necessità dei vari soggetti che possono presentarsi con problematicità o disagi di natura differente, nel caso specifico avviene anche una sorta, usando termini eccessivamente semplici, di categorizzazione. Allora l’elemento dell’ individualizzazione è necessario nel senso che ogni caso è a sé.
Ogni persona ha una sua struttura di personalità, un suo vissuto, quindi possono differire le varie circostanze, di fatto però la progettazione del percorso dovrebbe poter essere la medesima e soprattutto fare riferimento a delle linee guida ben precise. Quindi, un intervento di natura psicoeducativa che utilizza delle componenti di natura cognitiva-comportamentale. Questo perché quello che diventa fondamentale nel trattamento di un uomo maltrattante, in primo luogo, attiene alla necessità di modificare le sue credenze, le sue concezioni rispetto a quello che è il tema della violenza e soprattutto passa per una necessaria assunzione di responsabilità.
Ora rispetto a quella che è la legge, cioè il Codice rosso, c’è la necessità di seguire questo percorso terapeutico per avere una sospensione condizionale della pena, laddove questo è permesso. Il primo punto, quindi, è: ‘l’uomo maltrattante accede di fatto spontaneamente o no a questo tipo di percorso?’ È chiaro che accede perché c’è la possibilità di ottenere un beneficio, quindi la motivazione in gran parte è determinata da questo. Difficilmente, analizzando il fenomeno su larga scala, un uomo maltrattante di sua spontanea volontà e, quindi, prima che vi sia appunto l’azione penale, decide di accedere a percorsi di questo tipo. Quindi, standardizzazione da una parte, i percorsi più o meno rispondono a esigenze che sono appunto quelle di prevenire la possibilità che un comportamento di questo tipo venga posto nuovamente in essere. E, dall’altra parte, un’attenzione a quegli elementi di individualizzazione che fanno proprio parte di quella che è la cornice psicologica.
Dott. de Gioia, vuole rispondere anche lei a questa domanda?
“È vero, come dice la Dr.ssa Bolzan, che il maltrattante si sottopone perché spinto dalla motivazione che non è realmente quella di essere recuperato, ma potrebbe essere quella utilitaristica di trarre il vantaggio della sospensione. Però consideriamo anche che, in mancanza di quello obbligo di subordinazione, quel beneficio viene dato gratis, senza altro tipo di impegno. Quindi non è malvagia come scelta. Il problema qual è? Questa persona deve essere seguita in un percorso, deve avere consapevolezza dell’errore che ha fatto, capire che il suo modo di pensare deve essere rimeditato. Se è un percorso fatto da professionisti, come la Dr.ssa Bolzan, può portare a dei vantaggi. Quindi , io invoco dei corsi che vengano fatti da soggetti con competenze professionali, che possono dare una risposta al giudicante in termini oggettivi e certi. Devono avere un contenuto importante per la tutela non soltanto delle potenziali ulteriori vittime, ma anche per la tutela di questo soggetto perché quando quel soggetto viene sottoposto a un percorso di recupero per un reati minori, i cosiddetti reati spia, come per esempio i reati persecutori, e poi viene fuori da questo percorso non recuperato, quello rischia di commettere reati ben più gravi che poi lo porteranno nella struttura carceraria per un tempo illimitato.
Altro profilo cui accennava la Dr.ssa Bolzan, sul quale mi trova perfettamente d’accordo, noi dobbiamo restituire la fiducia alle persone che sono vittime di questi reati, dobbiamo far capire che le istituzioni ci sono e per farlo capire dobbiamo essere pronti a dare una risposta tempestiva. Quando io trovo davanti a me una persona vittima di questi reati, a distanza di 5/6 anni, si apre un problema drammatico: quello della vittimizzazione secondaria, perché la vittima, magari, ha cercato di rimuovere mentalmente quei fatti così drammatici della sua esistenza e poi la riporto in tribunale dopo 5 anni, dove deve ripetere e rivivere quei fatti”.
Dott.ssa Bolzan, alla fine del percorso terapeutico come si riesce a capire se veramente c’è stato il recupero del reo?
“La professionalità del criminologo clinico nell’ambito della valutazione è relativa proprio a questi aspetti. In questo senso mi ricollego all’intervento precedente circa la necessità di impostare un percorso che abbia una determinata tipologia di caratteristiche. Quando possiamo dire che effettivamente l’uomo è realmente e realisticamente riabilitato? Nel momento in cui possiamo utilizzare degli strumenti che vadano a valutare le dimensioni sulle quali abbiamo lavorato. E, quindi, se effettivamente questa presa di consapevolezza rispetto all’errata dinamica comportamentale, all’errata rappresentazione di quella che è la relazione con la partner, c’è stata, se c’è stata una reale presa di coscienza della responsabilità individuale che c’è nell’agire un comportamento violento.
Allora noi dobbiamo andare a valutare le dimensioni su cui si è intervenuti, possibilmente utilizzando strumenti che le singole discipline hanno a loro disposizione, nel caso specifico le professioni di natura psicologica, quelle di natura criminologica. Andando anche a valutare come e in che misura tutta una serie di aree e anche di elementi di contesto possono incidere negativamente o favorevolmente sul fatto che un determinato comportamento possa essere rimesso in atto”.