“Non si è dato alcun via libera ad alcuna procedura, che non è prevista dal nostro ordinamento, ma si è dato un parere sulle condizioni giuridiche che possono scriminare dal compimento di un reato”, afferma il professore Alberto Gambino, Prorettore Vicario Università Europea e Presidente nazionale di “Scienza & Vita”, intervistato da Interris.it sulla vicenda che vede avvicinarsi la possibilità di suicidio assistito per Mario, 43enne marchigiano paralizzato dalle spalle ai piedi da circa 10 anni a causa di un incidente stradale.
I fatti
Dopo due pronunce dei giudici di Ancona e altrettante diffide legali all’Asur Marche, è ora arrivato il parere del Comitato etico dell’Asur Marche che in seguito alla verifica delle condizioni ha confermato che Mario possiede i requisiti per l’accesso legale al suicidio assistito previsti dalla sentenza emessa dalla Corte Costituzionale, la n. 242/2019.
I dubbi espressi dal Comitato etico dell’Asur Marche
Dalla cartella di parere del Comitato etico emergono però anche molti dubbi. Ad esempio, l’organismo si è detto impossibilitato a fornire una valutazione su modalità, metodica e farmaco da utilizzare sul paziente. In particolare il Comitato rileva che non è motivata la scelta del dosaggio a 20 grammi del farmaco scelto, che non viene specificata la modalità di una premedicazione per ridurre l’ansia e sedare il paziente e neanche di un’anestesia. Il Comitato si dichiara anche incompetente a fornire un’alternativa al farmaco indicato. Inoltre, esaminando uno per uno i criteri dettati dalla Corte costituzionale per la depenalizzazione dell’assistenza al suicidio in casi eccezionali (tra questi, il fatto che la vita del paziente dipenda da trattamenti di sostegno vitale, come “la ventilazione assistita, oppure l’idratazione e l’alimentazione artificiale” secondo le parole stesse del parere), il Comitato rileva che “Mario” non è attaccato a “macchinari”. Infine, riconosce che nel caso specifico la “sofferenza fisica e psicologica ritenuta insopportabile” è un elemento che è “difficile rilevare”.
L’intervista
Per cercare di fare chiarezza sulla vicenda e capire cosa accadrebbe se si arrivasse ad eseguire la procedura per il suicidio assistito in una struttura pubblica, Interris.it ha intervistato il prof. Alberto Gambino.
Professore, nelle Marche, in provincia di Ancona, il Comitato etico ha dato via libera affinché Mario, paziente tetraplegico immobilizzato da 10 anni in seguito ad un incidente automobilistico, possa mettere fine alla sua vita con il suicidio assistito. Fatto che è stato definito “una svolta storica” da molti media…
“L’enfasi mediatica malcela la realtà delle cose. Quello che viene presentato alla pubblica opinione come ‘svolta storica’ è soltanto un parere peraltro non completamente positivo (è infatti negativo rispetto alla posologia del farmaco letale). Parere formulato da un Comitato etico che, su richiesta dell’azienda sanitaria marchigiana (Asur), ha verificato che il paziente tetraplegico si trova nelle condizioni legali per evitare che possa venire incriminato colui che eventualmente lo dovesse assistere in un suo atto suicidario come l’auto-assunzione di un farmaco letale, un ‘veleno’ per intenderci. Dunque è scorretto dire che c’è un ‘via libera’, perché attualmente non c’è alcun destinatario specifico della richiesta di suicidio assistito ma soltanto un documento che certifica l’esistenza di requisiti di ordine legale che potrebbero scriminare il reato dell’art. 580 codice penale (“Istigazione o aiuto al suicidio”)”.
In che modo si può arrivare a una legge che tenga conto della sacralità della vita e del rifiuto dell’accanimento terapeutico?
“Non è appropriato che una legge dello Stato utilizzi espressioni legate alla fede come la ‘sacralità’. Certamente però dietro una visione di fede autentica c’è sempre un principio umano e questo, rispetto alla vita, sta nella sua intangibilità, cioè la protezione indefettibile dell’integrità di ogni essere umano. Un’eventuale legge sull’eutanasia non potrà mai rispettare in modo pieno e assoluto questo principio, in quanto il presupposto di tale legge sta proprio nel provocare anzitempo la morte di un essere umano. Dopodiché anche le cosiddette proposte di leggi imperfette, cioè moralmente non condivise, reclamano un impegno costruttivo di chiunque abbia a cuore il valore irripetibile di una vita umana. Quanto al rifiuto dell’accanimento terapeutico – che nulla ha a che fare con l’eutanasia – esso è già previsto da tutti i protocolli sanitari e in Italia dalla legge n. 219 del 2017 in materia di consenso informato e disposizioni anticipate di trattamento”.
Dalla relazione del Comitato etico dell’Asur Marche sembrano emergere diversi interrogativi. In primis, il paziente avrebbe rifiutato terapie antidolorifiche integrative e ulteriori aiuti domiciliari. Inoltre, il Comitato ha rilevato che Mario non è attaccato a dei macchinari. Questi elementi sembrerebbero collocare il paziente marchigiano al di fuori del perimetro indicato dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 242/2019…
“Quanto al rifiuto della terapia del dolore, in realtà la Corte costituzionale non ne impone la somministrazione forzosa ma che ne sia garantito l’eventuale ricorso da parte del paziente e così è stato. Più problematica in effetti è la configurazione dell’altro requisito della sottoposizione ad un sostegno vitale di cui appunto se ne vuole l’interruzione. Mario è sottoposto a dispositivi e trattamenti sanitari che svolgono un ruolo sussidiario per funzioni fisiologiche e per eventuali aritmie (catetere permanente, manovre di evacuazione manuale, un pacemaker) e non, invece, a trattamenti di sostegno vitale attivi (“macchinari”) come lo sarebbe una ventilazione assistita. Il punto è delicato poiché emerge l’orientamento, sia nei pareri di organismi etici sia nella giurisprudenza, di parificare i due tipi di trattamento giustificandolo con l’intento di evitare discriminazioni tra pazienti parimenti affetti da patologie irreversibili con sofferenze insopportabili”.
Se si arrivasse a procedere con il suicidio assistito e la procedura fosse attuata in una struttura pubblica non si creerebbe un pericoloso controsenso? Gli ospedali sono per la cura delle persone, non per condurle alla morte…
“Il tema cruciale è proprio questo. La Corte costituzionale ha espressamente previsto che non esistano obblighi per il medico di assecondare la richiesta di un’assistenza al suicidio del paziente, che rientrasse nei requisiti legali indicati. Ma ove un medico lo facesse, la sentenza della Corte costituzionale ne scriminerebbe appunto il comportamento, con conseguente esclusione del reato di aiuto al suicidio. Più delicato è l’aspetto relativo al luogo dove procedere tale assistenza al suicidio. Parrebbe che Mario la richieda nel suo domicilio. Un coinvolgimento delle strutture sanitarie, dove per definizione si cura e si somministrano terapie e non farmaci letali, sarebbe devastante. Si attiverebbero infatti veri e propri protocolli e prassi sanitarie di enorme impatto culturale. Ne finirebbero per fare le spese proprio i pazienti più fragili e soli che, avendo anche tale possibilità esiziale, comporrebbero il campione più ricettivo della nuova prospettiva eutanasica. Anche perché, in un’ottica cinica, libererebbero posti letto e risorse economiche”.
Perché in questi ultimi anni si cerca di far passare l’eutanasia o il suicidio assistito come un diritto che il Servizio sanitario nazionale deve erogare? Non si tratta di un controsenso, anche pensando al giuramento di Ippocrate fatto dai medici?
“Qui dobbiamo fare molta attenzione. Nel caso Englaro – che non era una vicenda di eutanasia attiva ma di eutanasia passiva, con la sedazione e il distacco del sondino nasogastrico per il sostentamento e la conseguente morte della donna – alla fine la giurisprudenza amministrativa ha affermato che le strutture pubbliche devono garantire l’attuazione di un diritto assegnato ad un paziente. In assenza di una legge, probabilmente arriveremo ad un tale esito anche per l’assistenza sanitaria all’auto-assunzione del farmaco letale da parte del paziente. I diritti li assegna l’ordinamento e la Corte costituzionale quando interviene fa le veci del legislatore. Una volta che al paziente è attribuito il diritto all’assistenza nel suicidio è probabile che arriverà una sentenza giudiziaria che imporrà al servizio sanitario questa pratica. Solo una legge può scongiurare tale esito. Quanto al giuramento di Ippocrate sono convinto che i medici lo rispetteranno. Ma ove così non fosse, essi non sarebbero sanzionabili e, infatti, anche il loro codice deontologico si è conformato ai nuovi principi definiti dalla Corte costituzionale che abbiamo ricordato”.