Poco dopo le ore 9 del 16 marzo 1978 un commando delle Brigate Rosse entrò in azione a Roma in via Fani e – dopo aver ucciso i cinque agenti della scorta Oreste Leonardi, Domenico Ricci, Giulio Rivera, Francesco Zizzi e Raffaele Iozzino – rapirono il presidente della Democrazia Cristiana Aldo Moro che fu ucciso il 9 maggio successivo dopo un sequestro di 55 giorni.
Il profilo di Aldo Moro
Aldo Moro fece parte della Democrazia Cristiana fin dai primi anni e fu eletto nelle fila di questo partito alla Costituente. Divenne segretario della stessa nel 1959. Fu più volte ministro e come presidente del Consiglio guidò diversi governi di centro-sinistra, essendone egli stesso il principale artefice, tra il 1963 ed il 1968. Tra il 1969 e il 1976 instaurò un dialogo con il Partito Comunista anche detto strategia dell’attenzione che portò ad un periodo di confronto politico tra la D.C. e il P.C.I. Nel 1976 fu tra i promotori del governo di solidarietà nazionale. Interris.it, in merito a questi temi ed alla figura di Aldo Moro, ha intervistato il professor Agostino Giovagnoli, docente ordinario di Storia contemporanea presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore ed autore di molteplici pubblicazioni.
L’intervista
Il 16 marzo 1978 le Brigate Rosse rapirono Aldo Moro, qual era il contesto politico nazionale e internazionale in cui ciò avvenne?
“Il contesto in cui avvenne il rapimento di Aldo Moro è quello della cosiddetta grande distensione all’interno della Guerra Fredda tra i due blocchi, est e ovest, ma siamo già verso il tramonto di questa distensione che aveva visto l’Europa svolgere un ruolo importante, di apertura nei confronti del blocco sovietico, con l’Ostpolitik tedesca. Ciò si rifletteva anche nel panorama italiano in quanto aveva favorito una collaborazione di governo eccezionalmente ampia nell’ambito della solidarietà nazionale. In particolare, dopo il 1976, le elezioni che avevano visto due vincitori – come disse lo stesso Moro – ossia la Democrazia Cristiana e il Partito Comunista, aveva spinto inevitabilmente per una collaborazione di governo piuttosto singolare, nel senso che dal 1976 al 1978 per la prima volta dal 1947 il Pci non aveva votato contro il governo e si era astenuto. Era quindi in corso questa esperienza della solidarietà nazionale molto complicata, difficile e incerta di cui Moro era sicuramente uno dei principali protagonisti”.
Quali furono gli aspetti che denotarono maggiormente l’azione politica di Aldo Moro sul piano della politica interna ed estera?
“Aldo Moro è stato un grande protagonista della politica italiana, anzitutto della stagione di centrosinistra, fin dalle sue origini – verso la fine degli anni ’50 – e poi per gran parte degli anni ’60 – perché è stato il primo a varare governi di centrosinistra: il primo, il secondo e il terzo governo Moro fino al 1968. Nel periodo dopo il 1968 è stato molto spesso ministro degli esteri e di conseguenza ha sviluppato soprattutto una importante azione politica sul piano internazionale ed in seguito è tornato a fare per un biennio, nel 1974-‘76, il Presidente del Consiglio in una stagione molto più complicata, connotata dalla strategia della tensione, delle bombe e degli attentati neofascisti, in un Paese in profonda trasformazione, molto inquieto dopo il referendum sul divorzio che ha mostrato un Italia assai diversa da quella che si immaginava. In questo contesto Aldo Moro è stato protagonista nella stagione del confronto con il partito comunista e nell’ambito della solidarietà nazionale. Anche se, dopo il 1976, ha svolto il ruolo – apparentemente meno importante – di Presidente della Democrazia Cristiana, in realtà veniva considerato da tutti il regista della politica italiana. Moro è stato uno dei principali interpreti della democrazia dei partiti, ossia di quel sistema politico imperniato sui grandi partiti di massa, la Democrazia Cristiana, il Partito Socialista ed il Partito Comunista. Un protagonista della vita democratica del nostro paese, della collaborazione tra partiti diversi e, sul piano internazionale, è stato certamente in prima fila nella promozione della Comunità Europea e nel dialogo con i paesi emergenti e, più in generale, del Terzo Mondo”.
Quale fu l’azione di mediazione di papa Paolo VI durante il sequestro di Aldo Moro?
“Paolo VI visse con grande angoscia è tristezza il rapimento dell’amico Aldo Moro, così lo definiva. Egli si adoperò in molti modi per la sua salvezza, ad esempio incoraggiando un tentativo di pagamento di un riscatto monetario alle Brigate Rosse, incoraggiò i cappellani militari ad avere contatti con la malavita nelle carceri affinché si arrivasse in qualche modo ai sequestratori. L’episodio più famoso fu la sua lettera agli uomini delle Brigate Rosse, che lui scrisse e lesse pubblicamente perché non aveva modo di farla recapitare. È una lettera in cui Paolo VI lanciò un accorato appello ai rapitori di Aldo Moro mettendosi idealmente in ginocchio affinché gli risparmiassero la vita”.
Il rapimento Moro avvenne in piena guerra fredda. Cosa ci insegna oggi che il mondo è in cerca di nuovi equilibri geopolitici?
“L’instabilità internazionale è certamente un terreno che facilita le forme della violenza e del terrorismo. Per la verità, il sequestro Moro è stato fatto da italiani, dalle Brigate Rosse e quindi da una tipologia di terrorismo che ha radici nella società italiana. È un terrorismo che nasce dal passaggio del Partito Comunista Italiano alle ragioni della democrazia, che avviene proprio negli anni ’70, lasciando orfani i nostalgici della rivoluzione. In qualche modo quei brigatisti sono eredi di una rivoluzione mancata, verso cui ci sono state molte attese e sulla quale si è fatta molta retorica. Per tale motivo, i terroristi vedono nella violenza un passaggio obbligato perché la politica ha abbandonato l’orizzonte rivoluzionario. Quando viene rapito, Aldo Moro è il più importante politico italiano ed è questa la vera ragione del rapimento: viene rapito non tanto perché artefice della solidarietà nazionale ma soprattutto perché le Br vedono in lui il principale responsabile di trent’anni di governo della Democrazia Cristiana che, per i rapitori, sono anni di malgoverno della stessa Dc con altri partiti. Nella vicenda Moro si sono inseriti anche elementi di carattere internazionale: ad esempio ebbero probabilmente un ruolo palestinesi e israeliani, i servizi segreti dell’Europa orientale – Ungheria e Cecoslovacchia -, gli americani, ma tali ruoli sono secondari rispetto a un’azione che è stata svolta dalle Brigate Rosse, una formazione terroristica squisitamente italiana”.
Che insegnamento lascia Aldo Moro all’Italia e al mondo nel difficile momento che stiamo vivendo sul piano internazionale?
“Aldo Moro è stato un uomo di mediazione molto raffinata, anzitutto perché capace di grande pazienza nell’ascolto degli altri. Altri che sono stati i più diversi, ad esempio il mondo sovietico che era il grande avversario di quello in cui l’Italia si collocava, il mondo arabo con i rapporti che cercò di stabilire con Gheddafi e altri leader ecc. Ma gli altri con cui dialogava sono anche all’interno della politica italiana, i comunisti con cui Moro parlava pur non condividendone le idee e l’approccio antidemocratico. Ricevette persino giovani studenti universitari e li ascoltò per ore nel 1968, quando era Presidente del Consiglio e scoppiò la contestazione. Ciò dimostra una grandissima capacità di ascolto, a cui corrisponde anche una grandissima capacità di comprensione della realtà. Moro usava l’espressione l’intelligenza degli avvenimenti, il dialogo era per lui una strada per capire i cambiamenti profondi della società e anche il mondo internazionale. È stato un uomo di democrazia ma anche un grande uomo di pace. Ha tracciato in modo magistrale una strada affinché la democrazia sia ricca di tanti apporti diversi, non sia luogo di conflitto e esclusioni, ha percorso una via di pace tra est e ovest ma anche tra nord e sud, tra mondi davvero molto diversi tra loro”.
Qual è l’attualità della figura di Aldo Moro in una società che sperimenta nuove forme di violenza e terrorismo?
“La lezione di Aldo Moro è quella di un cristiano, perché la verità che egli cerca attraverso gli avvenimenti della storia è la verità di una speranza che, in qualche modo, Dio stesso viene accendendo tra le vicende umane. Moro cerca sempre questa verità nascosta negli eventi della storia, scava in profondità finché non gli pare di cogliere una luce, o perlomeno una strada. Al fondo della sua visione politica c’è un uomo di fede che ha vissuto la politica come un servizio ad una collettività spesso divisa e conflittuale, la quale invece deve trovare una strada che includa tutti. Quindi, non una politica del palazzo, dei vertici o della forza, ma una politica della democrazia intesa in senso non formale, ma come coinvolgimento di tutti, seguendo una prospettiva cristiana”.