Un Election day, nessun presidente. Ancora. La complicata conta dei voti rischia di protrarsi ben più a lungo di quanto fosse preventivato alla vigilia. Il che, di fatto, corona una corsa presidenziale apparsa controversa fin dall’inizio, flagellata dall’emergenza sanitaria, costellata da dibattiti fra i meno apprezzati della storia elettorale americana. E accompagnata da un sentore diffuso di incompiutezza. Contrastante, del resto, con un’affluenza da record, supportata dai 65 milioni di americani che hanno deciso di optare per il voto anticipato. Per posta soprattutto. Una variabile che mai, come in questo caso, ha giocato un ruolo importante nel determinare chi, fra i due candidati, dovesse accedere alla Casa Bianca. Joe Biden forse, esponente democratico che centra il record di voti per il suo partito; ma anche il presidente uscente, Donald Trump, resta in corsa. Rosicchia qualche voto, riduce il margine, annuncia azioni legali e chiede il riconteggio dei voti. Non in tutti gli Stati per fortuna, ma in Michigan, Nevada, Georgia, North Carolina e Pennsylvania sì.
Verso la Casa Bianca
Sembra passata una vita dal 2016, quando il Tycoon riuscì a spuntarla su Hillary Clinton. Quattro anni di presidenza controversa, per certi versi eclatante, scolpita a colpi di eccessi e di tweet, vessata dall’uragano Russiagate, dallo scorporamento progressivo dello staff nelle fasi iniziali dell’amministrazione, da una politica estera che ha segnato il riacutizzarsi del confronto sia con la Cina che con le potenze del Medio Oriente, senza aver tuttavia avviato nuovi conflitti. Elementi importanti nell’arco di un quadriennio, relativi in un momento di decisione come l’Election day. Quando a contare è più che altro la pancia del Paese, l’equazione fra la figura del presidente e le istanze della quotidianità popolare. Quella che, a oggi, pur inquadrando Joe Biden come una figura forse più rassicurante rispetto alla mediaticità politica del Tycoon, permette a Trump di non essere ancora del tutto messo da parte.
Trump vs Biden, elezioni “storiche”
Voti a parte, le elezioni americane hanno dimostrato la necessità per entrambi i partiti di ricostruire una leadership interna. E, agli Stati Uniti, il bisogno di una guida che riesca a farsi carico non solo della nuova fase della sfida al coronavirus, ma anche delle scorie di una prima ondata che, probabilmente, ha rappresentato il vero ago della bilancia nell’economia del giudizio. Accantonato il tema dei migranti, dell’Obamacare, forse persino del Black Lives Matter: l’emergenza è sanitaria e la fiducia degli americani andrà a chi, a loro giudizio, saprà meglio dell’altro far fronte alla crisi del dopo-pandemia. Non semplice.
“Siamo passati da una vigilia in cui tutti i sondaggi portavano verso la netta affermazione di Biden – ha spiegato a Interris.it Daniele Scalea, presidente del Centro Studi Machiavelli -, a quasi una revisione in senso opposto del trend. Abbiamo visto Trump puntare decisamente verso il superamento dei 270 voti elettorali, fino alla fase mattina italiana, in cui si sono bloccati i conteggi. Biden è uscito anzitempo, dicendosi fiducioso, poi Trump ha risposto dicendosi convinto di essere vincitore… Sicuramente si è verificata un’anomalia: in alcuni posti si è andati avanti a contare, in altri no. Non esattamente quello che ci si aspetterebbe da un Paese importante“.
La variabile del voto per posta
Poste le offensive del presidente circa la regolarità della votazione, il rischio per il Tycoon è che nemmeno la Pennsylvania potrebbe bastare a ridurre il gap che si starebbe concretizzando. A decidere il futuro della Casa Bianca, a questo punto, potrebbe essere la mina vagante del voto da casa. “Un’anomalia sotto tutti i punti di vista – ha proseguito Scalea – l’ampissimo ricorso al voto anticipato. Sul voto via posta si aprono due scenari: quello denunciato da Trump, ossia un voto meno sicuro via posta, che può essere manipolato da un lato; e dall’altro, al di là di questi sospetti, il fatto che un voto via posta permette di votare più facilmente“. Un elemento non di poco contro, se si considera che in questo modo “anche l’elettore meno motivato, che non andrebbe in coda al seggio, vota più facilmente, magari affidando la scheda anche ad altri”. Un quadro che, tendenzialmente, “favorisce l’inserimento “di chi non si interessa alla politica”, novero di elettori che, potenzialmente, sceglierebbe Biden: “Il voto via posta fa sì che chi ha interesse superficiale per la politica abbia pesato di più”. Legittimo ma, forse, un inedito nella storia delle elezioni.
Il segno della Corte Suprema
Ma se la vulgata del voto fuori dai seggi parla la lingua democratica, va anche considerato che, volenti o nolenti, quattro anni di amministrazione Trump richiedono un minimo di riflessione. Per non parlare di un confronto reale fra gesti spettacolari e risultati concreti. Un operato da leggere attraverso la lente della concretizzazione storica, i cui effetti restano ancora incerti o in sospeso. Senza una reale garanzia che altri quattro anni concedano il beneficio dell’assemblaggio definitivo del mosaico. “L’unico segno che siamo certi resterà è quello della Corte Suprema – ha spiegato a Interris.it Gregory Alegi, docente di Storia delle Americhe alla Luiss -. E questo è fondamentale, perché nel sistema americano è il giudice finale della compatibilità delle leggi con l’ordinamento”. Un dato non di poco conto, poiché “l’impalcatura costituzionale si avvicina ai due secoli e mezzo. Quindi, il livello di interpretazione necessario per stabilire la compatibilità di questioni che nascono dal XXI secolo è molto elevato”.
Segno tangibile, probabilmente l’unico che davvero protrarrà a lungo l’impronta del Tycoon sulla politica americana, “l’aver riempito di conservatori e conservatrici la Corte Suprema farà sì che la presidenza Trump durerà molto a lungo. Era già successo. E’ una caratteristica del sistema americano e Trump l’ha usata fino in fondo”.
Eventi mediatici
Più d’effetto, forse, la spettacolarità di una politica estera condotta in modo tale da costringere a rivedere, per molti esperti del settore, l’immagine stessa degli Stati Uniti a livello globale. “Gli altri elementi chiave della presidenza Trump sono in realtà molto mediatici. L’incontro con Kim Jong-un non ha prodotto un disarmo o un accordo strutturale. Anzi, di recente, nella parata militare tradizionale Pyongyang ha sfoggiato un nuovo missile intercontinentale. Il successo mediatico non sembra essersi tradotto in un successo politico. Vale anche per lo spostamento dell’ambasciata a Gerusalemme: è un vecchio edificio al quale è stata cambiata la targa, non c’è nessuna nuova sede diplomatica reale ancora. C’è per questo ampio margine per rovesciare la cosa. Su questi aspetti che ci hanno tanto coinvolto, servirà ancora del tempo per valutarne l’importanza concreta”.
L’ombra del virus
Diverso il discorso sul piano interno: “Forse – ha spiegato ancora Alegi – l’eredità va cercata in altre cose, come la radicalizzazione della politica, il passaggio da una fase di mediazione fra posizioni diverse e una di contrapposizione molto dura, esplicitamente armata. Tant’è che si temono scontri armati in caso di esiti non soddisfacenti. Questo degrado della civiltà politica è senz’altro un’eredità trumpiana, non inventata da lui ma trasformata in una leva del suo consenso”. Aspetto che, probabilmente, influirebbe sulla politica del Tycoon anche in caso di una rielezione: “La crisi del coronavirus, non prevedibile quattro anni fa, ci indica che il personaggio non ha la capacità di gestire una crisi, perché considera tutto a livello televisivo e social, in base all’indice di gradimento. In caso di riconferma, potrebbe essere costretto a giocare più in difesa, nella misura in cui i problemi in parte aperti, e in nessuna parte risolti del primo quadriennio, dispiegheranno i propri effetti”.
Politica tradizionale
L’esempio più concreto in questo senso, forse, sta proprio nelle relazioni diplomatiche con gli alleati. “Pensiamo allo scontro con l’Europa o alle minacce alla Nato: cosa rappresenteranno in caso di una nuova crisi di politica estera? Gli alleati europei firmeranno di nuovo una fiducia in bianco agli Stati Uniti oppure no? Sono aspetti che andranno constatati per capire veramente se c’è stato un uragano o acquazzone”. E’ innegabile che “questi quattro anni hanno squassato alcune convinzioni” e che “per vedere risultato bisognerà vedere la prossima crisi”. Solo in quel momento si capirà se “i meccanismi che avevano retto possano non essere più disponibili”.
Condizioni di incertezza delle quali Trump è stato viatico più che plasmatore: “Certe posizioni sono solo parzialmente attribuibili a Trump. L’insoddisfazione nei confronti degli alleati europei, ritenuti troppo morbidi con la Cina, o poco generosi negli stanziamenti militari per la Nato, sono posizioni che esistevano già prima. Lui le ha estremizzate, messe al centro e sbattute in faccia a tutti, anziché gestirle nelle stanze del potere. Con Trump avremmo ancora una diplomazia ‘spettacolare’, ma se non venisse riconfermato è probabile che una quota consistente continui a rappresentare un obiettivo politico degli Stati Uniti ma con una gestione più tradizionale”. Che forse non risolverebbe il problema della leadership. Ma questo è un altro capitolo.