Tragedie dimenticate
Nelle zone “calde” del pianeta
Certezze che tremano
Frontiere insanguinata
Il bollettino, emesso dal governo di Bishkek, non parla delle perdite da parte tagica. Secondo gli ultimi dati trasmessi dalla regione di Batken le strutture sanitarie hanno ricevuto i corpi di altre 12 persone. Medici senza Frontiere (Msf) rende noto di aver inviato un team e di aver allestito una clinica di fortuna all’interno di una scuola nel villaggio di Ravat, nella regione di Batken, dove hanno cercato sicurezza circa 18.000 sfollati in fuga dai combattimenti. «Oltre 200 le visite mediche offerte nei primi due giorni dallo scoppio del conflitto- riferisce la Ong-. Le persone, anche gli anziani, sono arrivate a Ravat dopo aver attraversato le montagne a piedi per mettersi in salvo. All’arrivo sono stati accolti dalle persone del posto che lungo le strade mostravano cartelli per indicare la loro disponibilità ad accogliere gli sfollati nelle loro case». Un altro team di Msf prevede di raggiungere la capitale della regione, la città di Batken, dove viene trasferita la maggior parte dei feriti, per valutare forme di supporto alle autorità sanitarie locali, «anche se la situazione è instabile». E «sul versante tagico, un team di Msf sta mobilitando forniture di emergenza ed è pronto a rispondere e fornire assistenza».
Mosca in difficoltà
Dopo il conflitto tra Armenia e Azerbaigian per il Nagorno-Karabakh, si è riaccesa un’altra delle varie dispute di confine che, dal crollo dell’Urss, oppongono le ex repubbliche sovietiche. I combattimenti cominciati alla frontiera tra Kirghizistan e Tagikistan, pur in presenza di un bilancio ancora incerto, appaiono come i più violenti da quelli del maggio 2021, che causarono almeno 55 morti e decine di migliaia di sfollati. Se Erevan e Baku hanno, rispettivamente, Mosca e Ankara come potenze tutrici, Bishkek e Dushanbe fanno entrambe parte della sfera d’influenza russa. Alcuni analisti hanno quindi suggerito un collegamento tra la nuova escalation di tensione kirghiso-tagika e la guerra in Ucraina, che sta distraendo il Cremlino dal nuovo “Grande Gioco”. Turchi e cinesi – e non più gli inglesi come ai tempi di Kipling – stanno contendendo alla Russia la capacità di guidare i processi politici ed economici negli immensi spazi dell’Asia centrale. E non manca chi, come il Kazakistan, che ha le dimensioni e le risorse per permetterselo, approfitta del difficile periodo attraversato dallo “zar” per provare a ballare da solo.
Escalation
Il 15 e il 16 settembre durante il vertice dell’Organizzazione per la Cooperazione di Shanghai (Sco), Vladimir Putin sembra aver reso evidente quali siano le sue priorità. I media di Mosca hanno dedicato molto spazio all’incontro tra il presidente russo e l’omologo azero, Ilham Aliyev, ma non altrettanta attenzione e’ stata dedicata al suo colloquio con il presidente kirghiso, Sadir Japarov, forse anche per l’attesa alla quale Putin – abituato a far aspettare l’interlocutore – è stato costretto dal collega di Bishkek. Nell’antica capitale dell’impero timuride, lo stesso Japarov si e’ trovato di fronte il collega tagiko Emomali Rahmon mentre i rispettivi eserciti si scambiavano colpi d’artiglieria. Il primo alla guida di una democrazia (quantomeno per gli standard dell’area), il secondo autocrate più tradizionale, i due leader hanno discusso un cessate il fuoco che, dopo i furiosi combattimenti di venerdì sera, ha grossomodo retto. Il nodo del contendere è però tutt’altro che risolto e risale alla demarcazione dei confini tra le repubbliche socialiste deciso a suo tempo dalle autorità sovietiche. Queste ultime si erano preoccupate di rendere gli Stati che componevano l’Urss il più omogenei possibile dal punto di vista etnico. Per le esigenze più disparate, da quelle orografiche a quelle infrastrutturali, qualche exclave restò tuttavia separata dalla nazione di riferimento. Tale fu il destino di Vorukh e Kayragach, insediamenti tagiki che si trovano all’interno della regione kirghisa di Bakten, teatro delle ostilità di questi giorni.
Effetti del crollo
Finché ci fu l’Unione Sovietica, si tratto’ di un problema relativo. Il crollo del comunismo riaccese però controversie che erano rimaste sopite e, ancor oggi, oltre un terzo dei mille chilometri di confine tra Kirghizistan e Tagikistan è contestato. La componente etnica ha un suo ruolo ma non e’ la ragione principale del conflitto. In ballo c’è l’accesso agli importanti bacini idrici della zona, da oltre trent’anni fonte di periodici scontri. La Russia si è offerta di collaborare alla delimitazione della frontiera per mettere fine una volta per tutte a un dissidio che le crea un certo imbarazzo. Kirghizistan e Tagikistan, infatti, sono entrambi parte non solo della Sco ma anche del Trattato per la Sicurezza Collettiva (Ctso), la cosiddetta “mini Nato” a guida russa che comprende, inoltre, Armenia, Bielorussia e Kazakistan (l’Uzbekistan è già entrato e uscito due volte; Georgia e Azerbaigian lasciarono nel 1999). Se si desidera, come Putin, condurre il mondo verso un nuovo ordine multipolare, un’alleanza militare con due membri che si sparano addosso a vicenda non è un ottimo biglietto da visita.