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Tigray, Il conflitto che il mondo fatica a vedere

Intervista di Interris.it al dottor Luca Mainoldi dell'Agenzia Fides in merito alla situazione nel Paese del Corno d'Africa

La Repubblica Federale Democratica di Etiopia è uno Stato dell’Africa Orientale situato nel Corno d’Africa, ex colonia italiana indipendente dal 1941, avente una popolazione di 117 milioni di abitanti la cui capitale è Addis Abeba.

Il conflitto interetnico in atto

A partire da novembre 2020, nel paese è in corso una guerra civile di immani proporzioni, dopo che il 4 novembre dello stesso anno l’esercito etiope ha sferrato un’offensiva a seguito di presunti attacchi delle forze regionali nella regione del Tigray verso le basi delle forze armate federali stanziate in loco. A seguito di questo conflitto migliaia di persone stanno perdendo la vita, oltre cinque milioni di persone sono state costrette a rivolgersi alle istituzioni per ricevere aiuti umanitari e due milioni di abitanti hanno dovuto abbandonare le proprie case perché distrutte dalla guerra. In questi giorni il Primo Ministro etiope Abiy Ahmed Ali ha liberato alcuni prigionieri politici, tra cui vi sono alcuni esponenti del Fronte Popolare di Liberazione del Tigray, lanciando nel contempo un appello per il dialogo nazionale. Interris.it ha intervistato, in merito alla situazione attuale nel paese, il Dottor Luca Mainoldi dell’Agenzia Fides.

Rifugiati etiopi in un campo profughi (immagine Ansa)

L’intervista

Qual è la situazione in Tigray dopo oltre un anno dall’inizio della guerra civile?

“La situazione è questa: a dicembre le forze tigrine che sembrava – secondo fonti soprattutto americane – stessero per conquistare la capitale federale Addis Abeba, si sono ritirate entro i confini della regione del Tigray. Questo perché, sia le forze etiopiche che i loro alleati regionali, sono riuscite a respingere, a quanto pare, anche grazie all’impiego di droni armati che sono stati forniti da alcuni paesi stranieri, quali ad esempio: la Turchia, gli Emirati Arabi Uniti e persino l’Iran. Questo fatto fa capire in che maniera il conflitto etiopico ha un riflesso regionale che va anche oltre il Corno d’Africa e riguarda alcune potenze mediorientali. Per quanto riguarda i droni, ne sono stati impiegati alcuni di provenienza israeliana – sembrerebbe non armati – mentre alcuni di quelli dotati di armamenti erano stati forniti anche dalla Cina – alcuni in maniera diretta ed altri attraverso gli Emirati Arabi Uniti -. Questi elementi hanno permesso alle truppe etiopiche di respingere i tigrini che si sono quindi ritirati all’interno del proprio territorio. Per questo, al momento si è creata una tregua di fatto tra le due fazioni in lotta che, in realtà sono di più, in quanto i tigrini avevano l’appoggio di alcuni gruppi di ribelli di altre regioni etiopiche che attualmente si sono ritirati. La regione del Tigray è occupata per circa un terzo sia dalle forze armate etiopiche che da quelle eritree – alleate del governo centrale di Addis Abeba le quali controllano una fascia di territorio lungo il confine con l’Eritrea”.

Qual è l’attuale situazione umanitaria in Tigray?

“La situazione umanitaria è disastrosa, esiste ancora un blocco – da parte sia eritrea che etiopica – per quanto riguarda l’invio di aiuti umanitari nella regione del Tigray. Nonostante gli appelli al dialogo, nei giorni scorsi, è stato segnalato un attacco aereo contro un campo di rifugiati eritrei nel Tigray che ha causato la morte di almeno 56 profughi. Chiaramente l’attacco aereo presuppone che sia stato condotto da forze governative etiopiche o eritree perché appunto, dramma nel dramma, già da tempo questa regione ospitava nel proprio territorio dei rifugiati eritrei e quindi, l’arrivo delle truppe di Asmara, ha causato un aggravamento della loro condizione. Queste sono le notizie che ci arrivano perché comunque, oltre al blocco degli aiuti umanitari perdura anche un blocco informativo relativo a questo conflitto”.

Quali sono i rischi per la sicurezza che questo conflitto può provocare in merito alla stabilità dell’intero Corno d’Africa?

“Già il fatto che l’Eritrea, da quando è iniziato il conflitto ad oggi, abbia partecipato alle operazioni militari contro le forze del Tigray costituisce un indice di un possibile rischio di escalation delle ostilità perché oltretutto – se le forze tigrine avessero prevalso – alcuni osservatori sostengono che la regione avrebbe potuto dichiarare la propria indipendenza e, a quel punto, si sarebbe creato un conflitto senza esclusione di colpi con l’Eritrea perchè la stessa considera il Tigray una minaccia alla propria sicurezza nazionale in quanto, la regione indipendente etiopica avrebbe potuto ambire alla conquista di una fascia di territorio eritreo al fine di avere uno sbocco sul mare. Al momento tutti questi scenari sembrano scongiurati proprio perché il conflitto è stato congelato ma non risolto e, attualmente, anche l’unità territoriale etiopica non sembra essere in pericolo. E’ chiaro che, qualora dovessero prevalere spinte centrifughe che coinvolgono le altre etnie etiopiche, si rischia poi un conflitto che può allargarsi ad altri territori del centro Africa perché comunque ci sono popolazioni di etnia somala che potrebbero avere un impatto anche sulla situazione in Somalia. La stessa cosa riguarda anche Gibuti perché – questo conflitto – ha coinvolto anche l’etnia degli Afar che è presente anche li; l’Etiopia è un insieme di diverse popolazioni che vivono non solo lì, ma anche nei paesi confinanti. Rimane poi sullo sfondo la crisi irrisolta per il controllo delle acque del fiume Nilo con la costruzione della famosa diga da parte etiopica sul Nilo Azzurro che ha messo in allarme il Sudan e soprattutto l’Egitto. Quindi, c’è sempre il rischio che, in mezzo a questa situazione di instabilità, possano anche intervenire forze militari egiziane o sudanesi per risolvere manu militari questa disputa”.

Militari nella regione del Tigray (immagine AFP or licensors)

In che modo le istituzioni internazionali preposte potrebbero intervenire per porre fine a questo conflitto?

“A tal proposito è interessante il fatto che gli Stati Uniti hanno da tempo un proprio inviato per l’Etiopia ed è una figura ormai istituzionalizzata ma, la stessa cosa – è notizia di queste ore – è stata fatta dalla Cina. Questo fa capire come le due maggiori potenze mondiali sono interessate a questa situazione. La Cina ha anche interessi economici evidenti nell’area e oltretutto, l’Etiopia confina con Gibuti dove Pechino ha l’unica base militare all’estero, almeno ufficialmente. Gli americani invece sono interessati perché comunque questo paese è stato tradizionalmente un loro alleato, almeno fino al 1975 – prima della fase marxista – e poi, a partire dagli anni ’90, è tornato ad essere un punto di riferimento degli Stati Uniti in Africa. Si tenga presente che l’Etiopia, ad Addis Abeba, ospita la sede dell’Unione Africana, quindi, è molto importante anche dal punto di vista panafricano ma anche simbolico. Il fatto che vi siano due rappresentanti, uno americano e uno cinese, per cercare di risolvere questo conflitto potrebbe prospettare la ricerca di soluzioni diverse; quindi, si dovrebbe trovare un punto d’incontro, anche all’interno delle Nazioni Unite, per cercare di risolvere questa disputa che il governo etiopico tende a gestire in prima persona escludendo gli altri attori. In particolare, a proposito di questo, nel corso di un colloquio telefonico avvenuto nei giorni scorsi tra il Presidente degli Stati Uniti ed il Primo Ministro etiope in cui Joe Biden ha incoraggiato il dialogo tra le parti e nel contempo ha espresso preoccupazione per i recenti attacchi aerei nei confronti della popolazione civile. La luce in fondo al tunnel è ancora difficile da vedere anche se il conflitto sembra congelato anche se questo non ha impedito i bombardamenti aerei su obiettivi civili”.

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