La Sacra Famiglia deve essere un modello per tutte le famiglie italiane, ma non un obiettivo a cui dover arrivare, ma un punto di partenza, una sorgente da cui attingere per nutrirsi di quella linfa vitale che inonda e fa crescere tutto ciò che è intorno. E’ questa la fotografia della famiglia scattata da padre Alfredo Feretti, direttore del “Centro La Famiglia”, il primo consultorio in funzione a Roma da 54 anni. Il Centro La Famiglia si pone come obiettivo primario la tutela dell’individuo, della coppia e della famiglia. E la promozione della famiglia fondata sul matrimonio.
La Giornata Internazionale della Famiglia
Il 15 maggio si celebra la 27esima edizione della Giornata internazionale della Famiglia, istituita nel 1994 dalle Nazioni Unite. L’articolo 29 della Costituzione Italiana riconosce e tutela la famiglia come società naturale fondata sul matrimonio. La celebrazione 2021 della Giornata Internazionale delle Famiglie si concentra sugli impatti delle nuove tecnologie sul benessere delle famiglie e segue il tema della 59a sessione della Commissione per lo Sviluppo Sociale “Transizione socialmente giusta verso lo sviluppo sostenibile: il ruolo delle tecnologie digitali sullo sviluppo sociale e il benessere di tutti”. La Giornata Internazionale offre un’opportunità per promuovere la consapevolezza dei problemi relativi alle famiglie e per aumentare la conoscenza dei processi sociali, economici e demografici che interessano le famiglie.
Famiglie, problematiche, necessità e chiese domestiche
Dei bisogni delle famiglie, soprattutto di quelli emersi in pandemia, delle loro necessità delle misure che dovrebbero essere attuate per sostenerle, ma anche di cosa significa essere “chiesa domestica”, Interris.it ne ha parlato con padre Alfredo Feretti.
Padre Alfredo, quali sono i bisogni delle famiglie, soprattutto in tempo di pandemia?
“Quello che emerge dal nostro piccolo osservatorio, il primo bisogno è poter avere dei punti i riferimento per confrontarsi su dei disagi molto forti che loro avvertono. Le famiglie vorrebbero qualcuno che possa ascoltare qualcosa che è indefinito, non chiaro. Ciò che ha provocato la pandemia, non è immediatamente classificabile, ancora non è stato raccontato nonostante tanti lettori del tempo della pandemia. E’ un trauma che ancora non è stato sufficientemente raccontato. Avvertiamo il bisogno delle persone di essere ascoltate, ascoltate nelle pieghe di quello che è successo, ascoltate nella confusione vera e propria; secondo: nonostante siano state obbligate a una comunicazione più intensa, un po’ perché si stava a casa, un po’ perché i mezzi di comunicazione ci hanno offerto spazi che neanche potevano immaginare, le famiglie ci chiedono indirettamente – ma spesso anche direttamente – un aiuto per comunicare con i loro cari. La conflittualità a livello comunicativo si è esasperata a livello incredibile. Sembrerà banale, ma questa problematica tocca sia i genitori sia i figli. Mai com e in questo periodo noi abbiamo richieste e domande di giovani, ragazzi adolescenti, che spontaneamente chiedono aiuto perché vivono un disagio che non sanno spiegarsi. Terzo: la gestione si due sentimenti forti, ossia la rabbia e la solitudine. C’è una rabbia diffusa, che sta sollecitando tanti aspetti, è una rabbia non dichiarata che spesso si manifesta con una calma apparente e poi ha i suoi sfoghi in qualsiasi aspetto. La solitudine: un grosso pacchetto di amicizie o legami che riempivano la vita, si sono affievoliti, qualcuno invece si è perso. La solitudine in certi periodi è diventata isolamento, quindi è stata deleteria, in altri momenti è stata occasione per riflettere su alcuni aspetti che altrimenti non si sarebbero mai analizzati”.
Sembrerebbe che le istituzioni abbiano relegato nel dimenticatoio la famiglia, ma nella nostra scala di valori, dove viene collocata?
“Sì è vero, le istituzioni hanno un po’ dimenticato la famiglia e c’è tutto un lavoro da fare. Ma le famiglie ci sono. A livello di vita reale, le protagoniste di questo lungo periodo sono proprio le famiglie e dobbiamo ringraziare loro se la pandemia la ‘svanghiamo’. Durante il lockdown abbiamo avuto esempi di famiglie che hanno dimostrato un eroismo impressionante. Storie fantastiche, ma concreto, quotidiano, fatto giorno dopo giorno di esperienze, di escamotage trovati. A livello di vita, la famiglia è già al centro dei nostri valori, solo che – usciamo dalla pandemia – sono i legami che si sono deteriorati. Quanta gente viene e chiede di fare famiglia? Se una volta eravamo specializzati come centro di preparazione al matrimonio, oggi li possiamo contare sulle dita della mano. Le relazioni si sono logorate e tutti stanno ripetendo, il Papa in primis, che adesso è il momento della fraternità, delle relazioni. Se riscopriremo le relazioni, allora potremo riscoprire anche la bellezza del matrimonio prima, e poi della famiglia. Io sottolineerei questo come aspetto”.
La famiglia viene spesso definita “chiesa domestica”. Cosa significa esattamente?
“Forse mai come in pandemia, ci siamo resi conto che quello di famiglia ‘chiesa domestica’ non è un concetto teologico staccato dalla vita. In pandemia ci siamo accorti quanto la coppia nel suo legame, il matrimonio, è esperienza di Dio. Poi ha bisogno di formazione ed educazione. Ma dobbiamo dirci con tutta franchezza che è famiglia e ‘chiesa domestica’ nel momento in cui la alimento come tale. Se noi finora abbiamo offerto e presentato la Chiesa sempre come altro, abbiamo depauperato le famiglie della loro ministerialità, della loro identità. Non si tratta di un’aggiunta, un ‘bollino’ in più che si dà dicendo ‘siete chiesa domestica’, ma lo sono perché è un dono che hanno ricevuto, solo che questo aspetto va coltivato. Penso a una madre che durante il lockdown ha dovuto fare i salti mortali per mantenere unita la sua famiglia: non è un’offerta di sacrificio unita all’Eucarestia altissima? Non è sacrificio di lode, quando pur non sapendo o non potendo pregare perché non ne hanno l’abitudine, accolgono i figli o il marito e li aiutano a sopportare momenti durissimi? Forse dobbiamo dire che la ‘chiesa domestica’ è una famiglia legata alla vita, a una spiritualità che parte dal basso piuttosto che a una spiritualità che parte dall’alto. Frequentando alcune case, quando è stato possibile, davvero ho pensato: ‘Sono entrato in Chiesa’. Molto spesso si è definito questo tempo di deserto, ma forse è più giusto dire che siamo stati in esilio, ossia siamo stati lanciati fuori dai templi, dalle chiese, dalle sinagoghe e stando fuori, abbiamo dovuto riconoscere che il Regno di Dio era lì, nelle famiglie. E allora davvero abbiamo riscoperto tutta la bellezza della vita come liturgia, come lode, come offerta. Il ‘tempio’ in cui ci siamo dovuti incontrare in questi mesi era la cucina, la camera da letto, il salotto. Questi luoghi sono diventati la nostra casa di Dio, dove la fatica, la precarietà, le debolezze si sono moltiplicate e allo stesso tempo sono diventate l’unico luogo teologico di manifestazione di Dio”.
Sarebbe necessario valorizzare ancora di più il ruolo delle famiglie nella vita pastorale?
“Io credo che il Papa ci ha invitato a scoprire l’Amoris Laetitia non tanto per il gusto di conoscere un documento, ma per ridare centralità alla famiglia. Finora abbiamo sempre detto: il presbitero si fa aiutare o dall’uno o dall’altro, ma forse deve essere proprio il contrario. Prima per dire che una famiglia era impegnata bisognava vedere se faceva catechismo, se partecipava ai gruppi famiglia, se era impegnata nella Caritas. Ma non sono questi i criteri: il sacramento vissuto nella concretezza lì dove sei è pastorale. Poi diventa anche evangelizzazione, testimone delle beatitudini del Regno. Ma pensare di prendere una famiglia e renderla protagonista facendogli fare le cose ‘un po’ clericali’, questo non funziona. Pensa che proprio ieri il Papa ha istituito il ministero dei catechisti. Prima, se il catechista era sposato era sì un elemento interessante, ma non faceva del suo matrimonio uno strumento di evangelizzazione, era secondario, come se il sacramento non fosse già nella vita e nella concretezza strumento e luogo i evangelizzazione. E’ il ministero sponsale che arricchisce la comunità, la Chiesa e dà frutti sul territorio. E’ pastorale anche una famiglia che non riuscirà mai a partecipare a un incontro, ma che tiene i contatti con alcune persone, che si prende cura di chi non può e lo fa con animo. Poi, ovviamente, bene per chi è portato anche per un impegno pubblico e civile”.
La Sacra Famiglia dovrebbe essere presa come modello da tutte le famiglie?
“Sì, è il nostro modello. Con una piccola sottolineatura. Se il modello è qualcosa a cui devo arrivare, questo mi farà sentire sempre in colpa perché, forse, non ci potrò mai arrivare. Se il modello, invece, è la fonte, il principio, allora io sono in fondo la continuazione, a me arriva la sua forza. Come una sorgente che dà continuamente vita e continuità a ciò che viene dopo. La Sacra Famiglia per noi non deve essere solo il modello di imitazione di virtù, testo di Paolo Vi conosciutissimo e vero; ma se è solo questo, ci sentiremo sempre inadeguati, non ci arriveremo mai. Se al contrario diventa la fonte, la sorgente, io attingo continuamente alla Sacra Famiglia, che è a sua volta icona della Trinità. La Trinità non è il modello a cui devo arrivare, ma al contrario. Sta alla mia origine e continuamente mi dà vita e mi porta avanti. Il rapporto con Maria, Giuseppe e Gesù è fonte, sorgente, non è il ‘modellino’ di tre santi a cui mi devo ispirare. Sono la fonte della vita”.