“Il suicidio è presente in tutte le fasce, specie nell’età anziana. Ma, negli ultimi 50 anni, stupisce e preoccupa l’aumento relativo dei suicidi nei giovani. I segnali esistono: è necessario imparare a riconoscerli per poter aiutare le persone in crisi con idee suicidarie”.
Così a Interris.it lo psichiatra Maurizio Pompili. Tra i massimi esperti a livello internazionale nell’ambito del suicidio, Pompili è professore ordinario di Psichiatria presso la facoltà di Medicina e Psicologia, Sapienza Università di Roma, e direttore UOC di Psichiatria, Azienda ospedaliero-universitaria Sant’Andrea, Roma. Fa parte dell’International Association for Suicide Prevention (IASP). Ha ricevuto lo Shneidman Award 2008 dell’American Association of Suicidology per “Contributi eccezionali nella ricerca in suicidologia”.
L’intervista al professor Pompili
Qual è la fascia di età in cui il suicidio è più frequente?
“Il suicidio è presente in tutte le fasce d’età, con una tendenza a crescere con l’aumento degli anni. Per entrambi i generi, dunque, la mortalità per suicidio cresce all’aumentare dell’età. Ma ciò che sorprende è – negli ultimi 50 anni circa – l’aumento proporzionalmente maggiore dei suicidi nelle fasce giovanili. Tanto che, nella fascia 15-29 anni, il suicidio è la terza causa di morte a livello globale. Parlando di genere, i dati sono netti: il rapporto tra maschi e femmine è di 3 a 1. La distribuzione geografica dei suicidi non è identica. Sia a livello italiano che globale. Ci sono dei Paesi a maggior rischio di suicidio tra la popolazione. Ad esempio quelli del Nord Europa, i Paesi asiatici e alcune Nazioni in via di sviluppo”.
Qual è la situazione in Italia?
“In Italia c’è un gradiente Nord – Sud: le Regioni settentrionali sono a più alto rischio suicidio del Meridione. Fa eccezione la Sardegna che – pur non stando al Nord – è una Regione con alti tassi di suicidio”.
Quali sono le cause che portano al suicidio?
“Il suicidio è un fenomeno multifattoriale: non c’è un’unica causa che lo spiega in maniera diretta. Nonostante si faccia spesso riferimento ai disturbi mentali e psichiatrici, è necessario precisare che sono fattori importanti ma non esclusivi per il rischio di suicidio: fortunatamente la maggior parte delle persone che soffrono di disturbi mentali, con disturbo depressivo maggiore o altro, non si suicida. Eventi di vita avversi uniti a specifiche connotazioni della personalità possono creare una sofferenza estrema per la causa il suicidio, dopo lungo pensare, diviene la migliore opzione per risolvere quel dolore”.
Quali fattori?
“Come detto, ad esempio: eventi avversi, abuso di sostanze, abuso di alcool, le esperienze vissute nell’infanzia. Quello che è importante sottolineare è che, al di là delle cause, dello stato civile, dell’età, del livello di istruzione e dello status sociale, il soggetto pensa al suicidio quando vive un dolore mentale e una sofferenza che diventa insopportabile. Questo dolore è fatto da emozioni negative che lede l’individuo, lo destabilizza, fino a fargli perdere una visione prospettica positiva nei confronti del futuro, fino ad arrivare alla conclusione – che non è mai profilata in modo estemporaneo né di primo approccio al problema – che sia meglio morire che continuare a vivere in quel mondo”.
In che senso la scelta “non non è mai profilata in modo estemporaneo”?
“Il tema del suicidio è scartato dal soggetto tante e tante volte. Tuttavia, si configura come la migliore soluzione quando le altre opzioni hanno fallito: non hanno dato risposte soddisfacenti alla risoluzione della sofferenza che vive”.
Perciò non è il frutto di un momento di profondo sconforto senza nessuna precedente programmazione?
“No, questo è molto raro, quasi impossibile. Il suicidio è in molti casi qualcosa di meditato e riflettuto perché è un argomento profondamente intimo e centrale. Nel momento in cui la persona prende la decisione di voler morire, a quel punto il gesto conclusivo può essere qualcosa di impulsivo. Ma si arriva lì dopo un dialogo interiore, non un impulso improvviso. La prevenzione si basa proprio sul riconoscimento dei segnali di allarme, vale a dire di condizioni che permettono di identificare precocemente i soggetti a rischio”.
Quali sono i segnali di allarme?
“Ce ne sono di diversi. Per esempio: l’individuo inizia a parlare di non farcela più, di non vedere più soluzioni, di non avere più speranza nella vita né nel futuro. Possono avere dei cambiamenti delle abitudini del sonno, o altri cambiamenti delle abitudini in generali; utilizzare droghe o bere alcool in modo eccessivo; allontanarsi dagli affetti, dagli amici e dalla precedente vita sociale; cimentarsi in atti molto pericolosi (come una guida spericolata) che mettono a rischio la vita; oppure mettendo a posto i loro affari, magari facendo anche testamento; regalando degli oggetti ai quali tengono molto – una collezione, un gioiello – ad un amico o ad un familiare. In questo caso il messaggio implicito è chiaro: ‘voglio che questa cosa alla quale tengo, sopravviva a me’. Inoltre, possono verificarsi dei cambiamenti d’umore repentino. Questi sono dovuti al fatto che la persona che pensa al suicidio è molto ambivalente: perché nessuno vorrebbe mai morire! Le persone che pensano al suicidio non vorrebbero morire, ma vorrebbero vivere, ammesso che qualcuno li aiuti a ridurre i livelli di sofferenza, ad avere ancora speranza nel futuro. Nel momento che il soggetto ha deciso di morire, si sente sollevato e sembrerebbe stare meglio. In realtà non è un reale miglioramento. Perché è il frutto di una decisione aberrante, quello di togliersi la vita”.
Come il Covid ha influito sull’aumento dei casi di suicidio?
“Si presumeva che il Covid avrebbe portato ad un aumento drammatico per le morti da suicidio durante la pandemia, specie in lockdown. Invece, quello che si è visto, è che nel periodo della pandemia e subito dopo non c’è stato un aumento delle morti. Però durante il Covid c’è stato un forte aumento dei tentativi di suicidio e di autolesionismo in tutte le fasce d’età, specialmente nei giovani. Nello specifico, secondo uno studio Usa, ha impattato soprattutto nei giovani tra i 12 e i 17 anni. E, in particolar modo, nelle femmine. Il perché questo aumento sia avvenuto nelle ragazze e non nei ragazzi è uno degli elementi da studiare più a fondo perché, come detto prima, normalmente il suicidio è tre volte più frequente negli uomini che nelle donne. A noi adulti spetta ora capire in che modo il Covid abbia influito in tutto ciò”.
Cosa è cambiato nel post pandemia?
“Nel post pandemia c’è invece stato un aumento dell’uso di sostanze e di alcool. Di comportamenti malaadattativi, vale a dire di comportamenti che tentano di far sì che il soggetto si confronti con i danni causati dalla pandemia – ad esempio l’assenza di confronto tra pari, la mancanza di maturazione relazionale, affettiva ed emotiva etc. – cercando di far fronte a queste difficoltà con delle modalità improprie. Che possono arrivare anche all’autolesionismo e ai tentativi di suicidio. A questi gesti bisogna fare molta attenzione”.
Come aiutare una persona che sta pensando al suicidio?
“E’ importantissimo ascoltare sempre con molta attenzione le parole delle persone che ci appaiono in crisi, senza sottovalutare il loro stato d’animo né le loro richieste di aiuto, anche se non esplicite. Rivolgendosi agli operatori della salute mentale e non sottostimare il rischio. E’ importante parlarne, anche facendo tra pari o in famiglia domande dirette del tipo: c’è qualcosa che ti fa soffrire? Pensi che la vita non valga più di essere vissuta? Hai pensato di voler morire? Se sì, per quale motivo? Queste domande permettono di entrare nelle dinamiche del rischio di suicidio. Quindi: ascoltare con attenzione, parlarne in modo opportuno e chiedere aiuto a degli specialisti è ciò che si può fare per aiutare le persone che stanno vivendo una forte crisi. Si può essere aiutati, si può arrivare a stare meglio e a ridurre la sofferenza. Mai perdere la speranza!”.