Forse non c’è stato l’impatto che si temeva ma la prova del Covid-19 l’ha vissuta anche l’Africa. Probabilmente la sua demografia, o forse il confronto passato con altre pandemie, ma il coronavirus ha attraversato il continente africano costringendo a focalizzare l’attenzione più sugli effetti riflessi che su quelli diretti della malattia. Un’occasione per coinvolgere i suoi Paesi nel progetto di risollevamento globale, per implementare con l’Africa un tessuto relazionale che vada oltre la semplice assistenza, potenziando la rete di interscambio e, soprattutto, una reciprocità produttiva che significherebbe davvero un aiuto per le sue economie. A questo mira il progetto “Sud Polo Magnetico”, pensato dalla Camera di Commercio ItalAfrica in un’ottica di sviluppo e innovazione, per le imprese del Mezzogiorno d’Italia e per quelle africane. Molte delle quali in crescita, nonostante tutto, con Paesi come l’Angola in procinto di sperimentare nuove leggi in favore di investimenti e programmazione. Promotore del progetto, il presidente di ItalAfrica, Alfredo Cestari, che spiega a Interris.it le strategie in campo per la creazione di una sinergia inedita e promettente tra il Sud d’Italia e il Sud del mondo.
Presidente Cestari, il progetto Sud Polo Magnetico rappresenta un ambizioso programma di interconnessione fra imprese che guarda all’Africa in un’ottica del tutto innovativa…
“Si rivolge al Sud del mondo ma guarda anche al Sud d’Europa. Promuoviamo un Sud che non si contrappone al Nord ma, al contrario, mette insieme le imprese non solo del nord Italia ma anche d’Europa. Dalla valorizzazione delle zone economiche speciali, recentemente istituite al Sud, abbiamo la consapevolezza che queste aree non saranno né di interesse delle imprese regionali, perché ogni impresa del Sud ha già la sua struttura, né potrebbero esserlo se non si connette il grande mercato del continente africano che oggi rappresenta 1.250.000.000 di consumatori. Rispetto all’esperienza maturata negli anni, sapendo che il nostro Sud sta soffrendo ma che anche il nord è diventato sud per la pandemia e riscontrerà difficoltà nel reperire nuove aree di mercato, indebolite da questa situazione economica molto incerta”.
Come strutturare una tale strategia, anche pensando alle difficoltà oggettive nel tessere rapporti infrastrutturali con Paesi che affrontano diverse complessità?
“Partiamo dal presupposto che bisogna aiutare il continente africano, esportando i nostri prodotti, moda, design, tecnologia, le nostre eccellenze, anche prodotti agroalimentari in quelle realtà, aiutando la nostra capacità produttiva e mantenendo posti di lavoro nel nostro Mezzogiorno. Aiutare queste realtà nelle loro origini, creando una serie di infrastrutture che riducano le disuguaglianze, la povertà e connettendo le nostre piccole e medie imprese che, in quei mercati, potrebbero svolgere un ruolo di accompagnamento allo sviluppo di queste realtà. Mettiamo al centro il Mezzogiorno, per la prossimità geografica a questo enorme mercato che fra 30 anni conterà 2.400.000.000 di consumatori i quali, per una percentuale sempre maggiore, avranno una grossa capacità di spesa. Ora si rivolgono a Dubai, alla Turchia per i materiali di costruzione, al mercato inglese, francese, belga e non lasciano molto spazio alle nostre imprese, anche per la scarsa connettività nei trasporti aerei. Anche questo indebolisce le possibilità delle nostre imprese di creare spazi soddisfacenti”.
Come ovviare al problema?
“Mettiamo innanzitutto al centro la valorizzazione del Sud da un punto di vista delle infrastrutture. Se non si fa questo, avremo sempre un’Italia che viaggia a due-tre velocità. Per conferire di nuovo un ruolo al Mezzogiorno d’Italia dovremo guardare non solo al mercato europeo o del nord Italia, quanto piuttosto presentare le zone economiche speciali alle imprese che guardano al nostro territorio come la piattaforma geografica, fisica, per entrare nel grande ambito africano restando con i regolamenti europei”.
Parliamo di un continente che forse non ha subito l’impatto che si temeva da parte del coronavirus ma che, a ogni modo, ha nel recente passato incontrato difficoltà nell’imprimere una svolta ai propri sistemi produttivi. Un progetto di connessione con imprese estere potrebbe alleviare alcune criticità?
“E’ un progetto molto ambizioso e difficile: abbiamo visto il Sud del mondo, Africa in primis, come un contesto di malattie, instabilità politica e povertà. Certamente è un luogo comune che noi, come imprenditori, cerchiamo di presentare correttamente. Le problematiche esistono, le sacche di povertà ci sono, non sono mercati facili ma con un adeguato accompagnamento le nostre piccole e medie imprese possono avere il loro spazio. Il nostro Made in Italy è sempre molto apprezzato, poi ci sono risorse che l’Unione europea ha destinato per zone esterne all’Europa e le nostre imprese devono guardare a questi finanziamenti che potrebbero aiutarle a entrare in tali mercati”.
Andranno conciliate strategie già esistenti per il rilancio delle imprese del Mezzogiorno?
“Il recente impegno del Ministero degli Esteri, con 1 miliardo e 400 milioni, ha destinato fondi per potenziare l’export e aiutare le nostre imprese anche solo per svolgere indagini di mercato, valutazioni sulla possibilità di importare materie, prodotti agricoli, concessioni della pesca, minerarie e infrastrutture e, viceversa, consentirebbe alle imprese di esportare il Made in Italy. Vi sono enormi potenzialità ed enormi risorse che vanno valutate a costo zero, facendo rete e partire dalla infrastrutturazione del nostro Mezzogiorno, dalla valorizzazione delle zone economiche speciali, che diventerebbero luoghi adatti a grosse produzioni agro-industriali per guardare al mercato africano”.
Quali effetti produrrebbe?
“Una fortissima contro-involuzione: i giovani che non abbandonerebbero più il Sud d’Italia, provando a contenere il fenomeno dello spopolamento, consentendo ai ragazzi di mettere in pratica nelle loro terre d’origine quello che hanno imparato andando fuori. Organizzare una rete di giovani professionalità, donne capaci, istituzioni meno burocratiche ma più attente ai bisogni del cittadino: queste necessità che provengono dal continente africano, possono diventare grandi possibilità per le nostre piccole e medie imprese”.
Com’è noto, al continente africano corrisponde una visione di aree in forti difficoltà anche nei servizi primari. C’è riscontro, da parte delle imprese, in merito a un progetto che mira a quei mercati? O tali situazioni rendono più prudenti gli investimenti?
“C’è prudenza ma abbiamo cominciato a scalfire zone d’ombra mantenute nei secoli. In Africa ci sono giovani connessi con le tecnologie attuali, imprese che crescono a doppia cifra, grazie a una migliore stabilità dei governi che ha consentito di creare infrastrutture e competenze, tante imprese che lavorano molto bene e che hanno una fortissima necessità di incontrare il settore privato e pubblico sia italiano che europeo. Ci sono tante resistenze da dover superare ma abbiamo una serie di rapporti e di canali di imprese che stanno già facendo un ottimo lavoro e ci auguriamo che questi esempi positivi possano essere replicati, cosicché le aziende, anziché licenziare, fallire o restare in una stagnazione economica, possano cominciare a valutare alternative. Su costi che andranno valutati”.
A livello istituzionale, a che livello è il supporto sia da parte del governo italiano che dei governi locali?
“Le istituzioni devono fare la loro parte, accompagnare adeguatamente le nostre imprese. Se le nostre industrie produrranno per un mercato di un così considerevole numero di abitanti, sicuramente ci sarà bisogno di nuove infrastrutture, di ampliare i luoghi di produzione. E questo significherà nuovi tecnici da assumere, nuovi funzionari e nuovi operai specializzati per soddisfare questo nuovo grande mercato”.
Una strategia di mercato rivolta al continente africano deve fare i conti con sfere di influenza che, negli ultimi anni, hanno preso particolarmente piede, come quella cinese?
“La Cina ha conquistato l’Africa senza sparare un colpo. L’Italia è sicuramente molto apprezzata, forte di una benevolenza di questi governi nei nostri confronti. Noi abbiamo una forte risposta positiva nei codici di investimento di questi Paesi, lavoriamo con questi governi e anche l’Italia, finalmente, inizia a rendersene conto. E’ un percorso iniziato da poco, va implementato ma i risultati iniziano a diventare sempre più evidenti”.
Il progetto rivolge la sua attenzione a territori particolari o a specifici settori di produttività?
“Noi operiamo per aree omogenee di interesse. Se parliamo di Africa centrale, mettiamo insieme cinque o sei Paesi che si collegano facilmente con poche ore di volo fra le loro capitali. Il tentativo è approcciare realtà locali che, fra loro, hanno frontiere aperte e liberamente commercializzare nei Paesi vicini senza ulteriori dogane con gli Stati limitrofi. Per quanto riguarda i settori: agricoltura, energia, sanità, informazione, infrastrutture. Ci sono tutti i settori che possono essere valutati dalle nostre imprese”.
Lo ha definito un progetto ambizioso. Potrebbe rappresentare un’opportunità innovativa laddove il Covid-19 ha costretto a rivedere quasi completamente le consolidate relazioni economiche?
“Non so se questa sia la strategia più semplice o vantaggiosa ma sicuramente è da tenere in grande considerazione. Altrimenti per gli imprenditori del nostro Sud, dopo questa tragica situazione arrivata dopo una fase già difficile, diventerà sempre più dura. O a queste imprese si danno risposte e strumenti finanziari adeguati, o saremo costretti a guardare con negatività una mancata attenzione verso questo grande mercato. E potrebbe essere troppo tardi quando le nostre imprese se ne dovessero accorgere”.