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Così ho strappato un essere umano dalla fogna

Non sempre accade che i veri diritti siano riconosciuti e affrontati con la dovuta priorità. Sentiamo insistere su presunti diritti cui, a dire il vero, non avevamo mai pensato. C’è chi vorrebbe allargare le maglie della legge 194 perché si possa arrivare a eliminare i bambini non ancora nati con più facilità, dimenticando quasi del tutto quella parte della legge che chiede di incontrare la donna in difficoltà, parlarle, individuare i motivi che l’hanno spinta a fare quella scelta dolorosissima per lei, per la famiglia, per la società. Aiutarla, sostenerla. Ricordandole che i problemi possono essere risolti, che col passare del tempo tante cose cambieranno.

Ricordandole anche che una volta eseguito l’aborto, pur volendo, indietro non potrà tornare più. Ne abbiamo viste tante di queste donne lasciate a se stesse, che a distanza di decenni ancora rimpiangono quel gesto cui si sottoposero con troppa superficialità.
Questa parte della legge 194 è quasi del tutto inosservata, sembra interessare poco e solo a tratti. Eppure dovrebbe stare a cuore a tutti, credenti e non credenti; in ballo non c’è ‘qualcosa’, ma la vita di un essere umano che verrà a rinnovare la faccia della terra.

Maria è una ragazza minorenne. È rimasta incinta. Sconcerto, paura, bisogno di affetto, di sicurezza, di calore. Maria già ama il suo bambino. Lo vuole. Ma è sola, terribilmente sola. La famiglia non versa in buone condizioni economiche. Unica soluzione: l’aborto. Maria non vuole, si oppone, ma è sola, senza lavoro, senza soldi, senza alcun sostegno. Riusciamo a incontrare questa futura, impaurita, giovanissima, mamma.

Ci facciamo accanto, le promettiamo aiuto. Le diciamo che non sarà abbandonata al suo destino. Ci siamo oggi, ci saremo domani. Con discrezione le raccontiamo di altre donne che come lei hanno avuto il coraggio di far nascere il loro figlio. La invitiamo a fidarsi della Provvidenza, perché Dio di certo non la abbandonerà. Arriva il giorno prefissato, Maria viene condotta in ospedale, tutto è pronto per ‘risolvere il problema’. Noi, col cuore a lutto, ci facciamo da parte, il nostro contributo deve essere calibrato, attento, Maria non è nostra figlia. Intanto preghiamo.

Pregare non è un modo per lavarsi le mani gettando sul Signore ogni responsabilità. Pregare per noi credenti è e rimane un atto di fiducia smisurata nella misericordia di Dio, è ricordare a noi stessi e agli altri che siamo veramente poca cosa se una mano misteriosa non ci sorreggesse dall’alto. Pregare è continuare a sperare anche quando ogni speranza sembra essere svanita. Separare l’azione dalla preghiera non è il meglio per un cristiano. Preghiamo mentre Maria viene condotta in ospedale.

Che cosa succederà non lo sappiamo. In reparto Maria piange, si dispera, rifiuta l’intervento, chiede di andare via. A malincuore, i suoi, la riportano a casa. Inutile dire che il fidanzato non si vede. E adesso? È minorenne, occorre fare attenzione alle leggi, muoversi con delicatezza. Allertiamo i servizi sociali. La riposta è decisamente scoraggiante. Il nostro Comune è in dissesto, non ci sono possibilità di poter aiutare Maria, nemmeno con un piccolo lavoro. Unico aiuto che possono dare è un supporto psicologico. Quasi niente.

Il muro di gomma contro il quale vanno a sbattere i poveri nel momento del bisogno si trasforma in una barriera di cemento armato. «L’aborto è un diritto», si dice da diverse parti. E che cosa ne è del diritto dei bambini, che purtroppo non hanno ancora la voce per gridare al mondo che non vogliono essere eliminati?

Quando i diritti confliggono occorre andarci piano, fermarsi, riflettere. Cercare il meglio per tutti. Occorre eliminare per davvero tutti gli ostacoli che spingono una donna a fare una ‘scelta’ obbligata. A imboccare una strada a senso unico, gettando su di lei ogni responsabilità. Maria ha scelto. Vuole partorire, allattare, coccolare il suo bambino; vuole stringerlo tra le braccia, farlo crescere, educarlo, amarlo. La famiglia, povera, non può aiutarla; il Comune in dissesto non riesce a farsi carico di questa assurda situazione; la sua condizione di minorenne limita il nostro aiuto. Noi ci siamo. Maria lo sa. E non solo con i consigli. Ci siamo in tutti i sensi. Noi faremo di tutto. E non rinunceremo a far capire come il dramma della povertà incide sul dramma dell’aborto.

Eppure tutto ciò sembra non interessare troppo chi nell’aborto vuole continuare a vedere a tutti i costi un salto verso la libertà, una “scelta di civiltà”.

Maria è mamma. Ha partorito Simone, un bambino più prezioso del sole. Solo la parrocchia si è fatta accanto a questa ragazza. Dei cantori del diritto all’aborto nemmeno l’ombra. Dalle istituzioni nemmeno un litro di latte.

Simone l’ho battezzato io. Ricordo bene quella mattina. Tutti felici, eleganti, sorridenti, accompagnati dal fotografo. Simone non saprà mai il rischio che ha corso. È stato a un passo dalla fogna. Guardo con dolore coloro che a tutti i costi volevano che Maria abortisse. Poi rivolto al padre, che, orgoglioso, felice, soddisfatto, stringe tra le braccia il suo bambino, chiedo: «Me lo vuoi dare? ». « Siete pazzo, padre? Mai». E gli stampa due bacioni sulle guance.

Osservo il gruppo mentre lascia la chiesa. Felicissimo di aver collaborato a strappare un essere umano dalla fogna, mi ritrovo a farfugliare:«Se la mia vita è servita solo a salvare la vita di Simone, mi basta; sono contento di essere nato».

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