Il south working è il fenomeno del “controesodo”, iniziato in Italia nei mesi scorsi, per il ritorno dei lavoratori (e degli studenti) di origine meridionale alle proprie case. Il rientro dei “fuori sede”, a causa dei lockdown e dello smart working, ha cambiato la socialità e ha inciso, notevolmente, sull’economia del Nord, riducendo la platea dei consumatori. La “fuga” dei lavoratori verso i luoghi di origine, avvenuta, peraltro, in tempi molto brevi, ha lasciato vuote le grandi città del Nord, in cui sono rimasti soltanto i residenti di lungo corso. Il fenomeno, infatti, ha desertificato le metropoli, Milano in testa. Lavoratori e studenti hanno lasciato le case, prima prese in affitto, e hanno posto, in gravi condizioni, tutte quelle attività, di ristorazione, divertimento, abbigliamento e consumi vari, che gravitavano intorno a questa cospicua fetta di popolazione.
Gli effetti del south working
Si tratta di una fase inversa a quella dell’emigrante meridionale del dopoguerra (storie di lacerazioni familiari molto tristi) e nessuno l’avrebbe immaginata. Lo smart working ha permesso di ripopolare paesi e ambienti rurali prima quasi abbandonati. L’effetto evidente si è avuto soprattutto al Sud ma non mancano molti borghi del Centro, ravvivati dal rientro dei loro “expats”, gli espatriati, i cervelli costretti a lavorare lontano dal luogo di origine. Il “ritorno dei cervelli” non è una fenomenologia di rimescolio demografico prettamente italiana, bensì, una questione che concerne anche il flusso con l’estero. Alex Turnbull (gestore di fondi australiano) ha affermato che “lavorare con successo da casa è un’abilità, proprio come programmare, progettare o scrivere. Ci vuole tempo e impegno per sviluppare tale abilità, e la tradizionale cultura dell’ufficio non ci permette di farlo”. Il sindacalista Marco Bentivogli ha pubblicato, nel 2020, per Rubbettino Editore, un volume dall’emblematico titolo “Indipendenti. Guida allo smart working”.
Il quadro dipinto da Svimez
Il rapporto della Svimez (Associazione per lo Sviluppo Industriale del Mezzogiorno) ente privato per studiare e migliorare le condizioni economiche del Sud, relativo al 2020 (presentato lo scorso 24 novembre), è molto particolareggiato. Offre un quadro interessante del Sud visto prima dello sviluppo della pandemia e anche per gli effetti successivi. Fra i molti dati presenti, a proposito del south working, al link http://lnx.svimez.info/svimez/wp-content/uploads/2020/11/rapporto_2020_sintesi.pdf, pag. 31, si legge “Sono quarantacinquemila gli addetti che dall’inizio della pandemia lavorano in smart working dal Sud per le grandi imprese del Centro-Nord. Questi i primi risultati di un’indagine sul South working, realizzata da Datamining per conto della SVIMEZ su 150 grandi imprese con oltre 250 addetti, che operano nelle diverse aree del Centro-Nord nei settori manifatturiero e dei servizi. Una cifra quella dei quarantacinquemila lavoratori che equivale a 100 treni Alta Velocità riempiti esclusivamente da quanti tornano dal Centro-Nord al Sud. Il dato potrebbe essere solo la punta di un iceberg. Se teniamo conto anche delle imprese piccole e medie (oltre 10 addetti) molto più difficili da rilevare, si stima che il fenomeno potrebbe aver riguardato nel lockdown circa 100 mila lavoratori meridionali. Sono circa due milioni gli occupati meridionali che lavorano nel Centro-Nord. Dall’indagine emerge altresì che, considerando le aziende che hanno utilizzato lo smart working nei primi tre trimestri del 2020, o totalmente o comunque per oltre l’80% degli addetti, circa il 3% ha visto i propri dipendenti lavorare in South working. Poter offrire ai lavoratori meridionali occupati al Centro-Nord la possibilità di lavorare dai rispettivi territori di origine potrebbe costituire un inedito e quanto mai opportuno strumento per la riattivazione di quei processi di accumulazione di capitale umano da troppi anni bloccati per il Mezzogiorno e per le aree periferiche del Paese. La SVIMEZ propone l’identificazione di un target dei potenziali beneficiari di misure per il South working. Occorre concentrare gli interventi sull’obiettivo di riportare al Sud giovani laureati (25-34enni) meridionali occupati al Centro-Nord. Utilizzando i dati ISTAT sulla forza lavoro e quelli relativi all’indagine sull’inserimento professionale dei laureati italiani, si è stimato che la platea di giovani potenzialmente interessati ammonterebbe a circa 60.000 giovani laureati. Lo studio è stato realizzato in collaborazione con l’associazione South Working Lavorare dal Sud. In base ai dati dell’Associazione l’85,3% degli intervistati andrebbe o tornerebbe a vivere al Sud se fosse loro consentito, e se fosse possibile mantenere il lavoro da remoto. Da questa ricerca, condotta su un campione di 2mila lavoratori, emerge che circa l’80% ha tra i 25 e i 40 anni, possiede elevati titoli di studio, principalmente in Ingegneria, Economia e Giurisprudenza, e ha nel 63% dei casi, un contratto di lavoro a tempo indeterminato. […] La maggior parte delle aziende intervistate, in base all’indagine Datamining, ritiene che i vantaggi principali del South working siano la maggiore flessibilità negli orari di lavoro e la riduzione dei costi fissi delle sedi fisiche. […] Tra i vantaggi che i lavoratori percepiscono di più nel momento in cui viene proposto loro lo spostamento nelle aree del Mezzogiorno, i principali sono il minor costo della vita, seguito dalla maggior possibilità di trovare abitazioni a basso costo. Per quanto riguarda gli svantaggi, spiccano i servizi sanitari e di trasporto di minor qualità, la scarsa possibilità di far carriera e la minore offerta di servizi per la famiglia. La SVIMEZ, con l’avvio di un Osservatorio sul south working intende promuovere l’adozione di un pacchetto di misure volte all’attrazione di lavoratori qualificati che potrebbero favorire la riattivazione di quelle precondizioni dello sviluppo da troppi anni abbandonate. Il south working potrebbe rivelarsi un’interessante opportunità per interrompere i processi di deaccumulazione di capitale umano qualificato iniziati da un ventennio (circa un milione di giovani ha lasciato il Mezzogiorno senza tornarci) e che stanno irreversibilmente compromettendo lo sviluppo delle aree meridionali e di tutte le zone periferiche del Paese”.
Com’è la situazione al momento
Southworking.org è un sito che, al motto di “Vediamo nel lavoro agile da presidi di comunità uno strumento utile a ridurre il divario economico, sociale e territoriale nel Paese e in grado di migliorare la qualità della vita di persone e territori”, pone in collegamento tutti i south worker e quelli aspiranti tali, cercando di fornire rete, informazioni, collaborazioni e consigli.
Al momento, la situazione è alquanto complessa e indefinibile, visti i cambiamenti così repentini che costringono aziende di piccole, medie e grandi dimensioni a rivedere il proprio orientamento strutturale. Difficile stimare quanto lo smart working potrà rimanere utilizzabile o se le aziende preferiranno un ritorno completo, o quasi, all’antico.
Occorre anche capire se, a livello sociale, questo cambiamento “spaziale” di abitudini sia davvero fondato e possa durare a lungo, visto che lavoratori e studenti hanno perso i rituali con amici e colleghi e ora si ritrovano nelle case di origine con probabili problemi di convivenza, con realtà non più abituate alla loro presenza. Non tutti, infatti, aderiscono volentieri a questo cambiamento e auspicano un ritorno alla realtà sociale in cui erano stati “adottati” in precedenza.
Un beneficio solo per il Mezzogiorno?
Lo sviluppo del Mezzogiorno contribuisce al benessere delle stesse zone del Sud ma la crescita avrebbe conseguenze positive per l’intera Italia e tale miracolo economico nazionale potrebbe ricalcare quello avvenuto, a esempio, con l’unificazione tedesca, in cui l’arretratezza dei lander dell’Est è stata ben assorbita e poi questi sono divenuti volano per il rilancio nazionale.
L’ideale al quale si ispirano i lavoratori del Sud è di rimanere nelle condizioni ottimali per poter lavorare (e studiare) da casa, nel proprio territorio, valorizzando e valorizzandosi. Il rischio è di scivolare verso una politica di disinvestimento strutturale ed economico nel Sud e dar luogo a quel fenomeno meno “simpatico” di “boomerang working” (già attuale negli Usa) in cui non è più possibile rimanere nella nuova condizione.
Il south working potrebbe essere un’opportunità fondamentale per la ripresa del Mezzogiorno, per la sua rinascita economica e sociale; sarebbe vanificata se questa terra, più disagiata e debole, costringesse i suoi giovani e i suoi lavoratori a tornare al Nord, pendolari di ritorno, illusi per un breve periodo.