La “sindrome dell’impostore” è la patologia, identificata da circa quarant’anni, nel mondo occidentale, per la quale persone competenti sviluppano l’infondato timore di non meritare il proprio successo. Si instaura, così, un senso di colpa, immotivato, per il quale l’individuo capace e meritevole sminuisce il percorso effettuato e la posizione raggiunta, considerandoli come frutto della fortuna o della sopravvalutazione altrui.
In genere, il contesto di riferimento è quello lavorativo ma ne esistono altri in cui la patologia si verifica in modo molto simile: università, scuole, rapporti sentimentali, amicizie e altre attività sociali.
In un’epoca di diffusa presunzione, di esaltazione della propria immagine e di scarsa meritocrazia, tale patologia appare piuttosto anomala. Il paradosso è che a soffrirne dovrebbero essere coloro che abbiano ottenuto un posto o una posizione non meritata per “nepotismo”, invece colpisce chi si è adoperato con merito e trasparenza.
Come si manifesta la sindrome dell’impostore
Le ripercussioni psichiche e fisiche sono notevoli: stress, ansia, crisi di panico, isolamento. La società, inoltre, rischia di perdere la sicurezza delle persone valide, quelle che hanno ottenuto il successo in maniera esclusivamente meritevole. Questa condizione di disagio finisce per limitare il proprio contributo e la propria creatività all’interno dell’ambiente in cui ci si trova.
Il rischio, inoltre, è quello di rinunciare a ulteriori possibilità di crescita e di prospettive proprio perché ci si considera non all’altezza e che le “fortune” capitino una sola volta. La patologia, quindi, ha delle conseguenze tarpanti.
Il termine è stato coniato, nel 1978, dalle psicologhe statunitensi Pauline Rose Clance e Suzanne Imes, per indicare le persone che non si ritengono meritevoli del livello professionale o sociale ottenuto bensì usurpatrici di un traguardo spettante ad altri. Il loro studio si è concentrato, inizialmente, su un campione di 150 donne, poi, negli anni, si è esteso anche agli uomini, trovando conferma dell’universalità di tale carenza di competenza.
Chi soffre di questo disturbo
Chi ne soffre, sminuisce il traguardo ottenuto con tanto sacrificio e lo considera come frutto esclusivo del caso o della fortuna, avendo sottratto ad altri tale possibilità. La patologia, diffusa e studiata ormai da decenni, non è, al momento, inserita nel DSM (acronimo di “Diagnostic and statistical manual of mental disorders” ossia “Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali”), testo internazionale di riferimento per gli specialisti del settore.
Gli esperti della mente fanno rientrare la patologia nelle cosiddette “distorsioni cognitive”, quelle che derivano dalle interpretazioni sfalsate, alterate e negative del mondo circostante.
Al link https://www.milano-psicologa.it/distorsioni-cognitive/#:~:text=Le%20distorsioni%20cognitive%20disfunzionali%20si,grado%20di%20fare%20nulla%20dopo, sono spiegati, dettagliatamente, i ben 17 casi di distorsioni cognitive, in cui la sindrome in questione rientra in più di uno.
“Il forse è la parola più bella del vocabolario italiano, perché apre delle possibilità, non certezze… Perché non cerca la fine, ma va verso l’infinito”. Parole di Giacomo Leopardi.
Il web riporta una stima presentata in un articolo dell'”International Journal of Behavioral Science”, una rivista internazionale che si occupa di scienze comportamentali, in cui si afferma che circa il 70% delle persone abbia sperimentato la sindrome almeno una volta nella vita.
Il 18 febbraio scorso, è stato pubblicato, per Feltrinelli Editore, un volume scritto da Sandi Mann (docente di psicologia), dal titolo “La sindrome dell’impostore, Perché pensi che gli altri ti sopravvalutino”, in cui è ampiamente affrontato il fenomeno.
La trama inizia con un dato statistico identico a quello suddetto “Uno studio recente sostiene che il 70 per cento delle persone ‘sperimenta almeno un episodio’ di sindrome dell’impostore nell’arco della vita”.
Il periodico The Vision, al link https://thevision.com/cultura/sindrome-impostore/, ricorda “Secondo una ricerca commissionata dall’agenzia Amazing If, un terzo dei millennials dubiterebbe del proprio valore sul lavoro, con un 40% di donne che ammette di essere intimidita dai colleghi più anziani, contro un 22% di uomini”.
La rivista Focus riferisce anche di esempi clamorosi del passato, evidenziando come il celebre scienziato Albert Einstein soffrisse di questo disturbo.
Il lavoratore che indugia, in preda alla propria scarsa autostima, deve fermarsi (circostanza rara nella società iperveloce) e riflettere, profondamente, sino a sincerarsi, una volta per tutte, consapevole, di non aver “rubato” il posto o il successo a qualcuno.
Molti hanno anche paura a confidare tale timore ad altri colleghi. La stessa raccomandazione di uscirne attraverso un’autoanalisi collettiva potrebbe generare, infatti, pericolosi abusi da chi si ritiene superiore e approfitta di queste ammissioni per cavalcare la remissività del collega.
Come affrontare il problema
È buona norma non ascoltare coloro che hanno vocazione a sminuire gli altri.
Gli elogi sono sempre ben accetti ma, a volte, non si è abituati e si crede che il prossimo tenda a sopravvalutare, innescando quasi un timore dell’esser capaci.
Ogni attestazione di stima è vista come una sopravvalutazione.
Il “sapere di non sapere” socratico si esalta ma non si combina dialetticamente con la relativa maieutica.
Il timore di avere gravi limiti e di non essere capaci e meritevoli può, sconfinare, quindi, nel dover sempre dimostrare qualcosa in più e assumere carichi enormi, in un infinito processo di perfezionamento, con conseguenti ricadute sul piano fisico e mentale.
Occorre un atteggiamento più sereno e aperto al confronto per poter vagliare se, davvero, il rapporto proprie competenze-proprio livello professionale, sia distante o rapportato con gli altri lavoratori.
Umiltà e paura di poter sbagliare sono elementi che concorrono al disagio se non vissuti nella giusta misura.
Tale comportamento, spesso, è il retaggio di esperienze del passato, tra famiglia e scuola, in cui non ci si è sentiti adeguati o valorizzati al meglio e, nel momento in cui il merito è riconosciuto, sembra quasi irreale, da abituati alla sottostima.
La troppa stima fa stentare a crederci. Non si è più abituati ai complimenti, sempre più rari in una società ultracompetitiva e irriconoscente.
La mediocrità, per contro, spinge a definire “eroi” coloro che agiscono nel normale.
In un’epoca di estrema competizione sociale e di ansia da prestazione che, paradossalmente, finiscono per rendere gli esseri umani sempre più dipendenti fra loro, possono avvenire circostanze di scarsa autostima della propria condizione o, al contrario, di sovrastima sino a considerarsi semidivinità.
L’ambiente professionale, il più esposto alla sindrome, dovrebbe facilitare la consapevolezza del ruolo svolto dal lavoratore, senza sottostimarlo e realizzando le condizioni affinché si senta partecipe del progetto nel quale è parte integrante e meritevole per gli sforzi sostenuti.
La conclusione emblematica è quella di una società in cui il merito e la cultura spesso siano considerati quasi una colpa e inducano, addirittura, a provare dei rimorsi e dei problemi di coscienza.