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Sindrome del deresponsabilizzato: sempre più infallibili e soli

La “Sindrome del deresponsabilizzato” consiste nell’attribuire, sistematicamente, la responsabilità di un episodio negativo a un’altra persona, per sottrarsi alle conseguenze. Si tratta, quindi, di un atteggiamento vittimistico che non procede per un sano esame di coscienza e di valutazione oggettiva della realtà bensì attraverso l’esigenza di giudicare l’altro come espressione del male e dell’errore. L’abitudine di assegnare la colpa agli altri ha radici antiche, dure da estirpare, più pronunciato nelle società individualistiche e competitive.

I primi segnali della deresponsalizzazione si riscontrano nei bambini, che, sgravandosi dalle responsabilità, additano (in tutti i sensi) sempre la causa del problema a un loro coetaneo. Tale originarsi del fenomeno non deve essere sottovalutato o considerato solo circostanziale, figlio dell’età acerba del bambino, poiché, se non denunciato, il comportamento rimarrà radicato per tutta la vita del soggetto. L’abitudine a un buon esame di coscienza personale deve iniziare sin dai primi anni, questo per evitare pericolose “deviazioni” e disturbi della personalità in età adolescenziale e matura.

Un esempio classico è quello del rimprovero dell’insegnante all’alunno. È noto: un tempo, i genitori si univano a tale richiamo, ora tutelano il figlio all’eccesso anche dinanzi a un’evidenza contraria e schiacciante. Il genitore che assolve, puntualmente, il proprio figlio, dinanzi a problematiche con l’insegnante o con altri bambini, contribuisce a costruire il muro di vanità, di narcisismo e di invincibilità che sarà duro poi a sgretolarsi e a rendersi permeabile alla critica, al confronto.

La sindrome è tale poiché l’atteggiamento, difensivo all’interno e offensivo all’esterno, diviene una regola di condotta, uno stile di vita e non solo un episodico e comprensibile cedimento di un comune mortale. La maturità di un individuo si sviluppa anche attraverso l’effettuazione di un esame di coscienza, il giudicare se stesso e non gli altri e nel saper discernere e valutare quanto, in un evento o in una situazione spiacevole, si debba attribuire la responsabilità al prossimo.

Il vittimismo è un deficit mentale che rovina e insidia ogni relazione sociale, penalizza l’altruismo e la comprensione del prossimo nonché l’empatia e la compassione; è un egoistico rifugiarsi nella sfera personale chiudendosi alla realtà del mondo esterno. La tendenza ha delle ripercussioni notevoli perché influenza anche i rapporti di natura sentimentale ed è causa delle numerose rotture matrimoniali e affettive dei tempi moderni.

“Disimpegno morale” (sottotitolo “Come facciamo del male continuando a vivere bene”) è il volume pubblicato da “Erickson” nel 2017 e scritto dal noto psicologo Albert Bandura. Nel libro, l’autore approfondisce quei meccanismi attraverso i quali alcuni individui riescono a svincolarsi dal “senso di colpa”, a sentirsi innocenti (in una convinzione del tutto personale) pur commettendo palesi comportamenti errati.

A proposito di colpa e di reato, errori.giudiziari.com, archivio su errori giudiziari e ingiusta detenzione, al link https://www.errorigiudiziari.com/errori-giudiziari-quanti-sono/, riporta diversi dati, fra questi si legge “Ricordando, come sempre, che c’è una differenza tra le vittime di ingiusta detenzione (cioè coloro che subiscono una custodia cautelare in carcere o agli arresti domiciliari, salvo poi venire assolte) e chi subisce un vero e proprio errore giudiziario in senso stretto (vale a dire quelle persone che, dopo essere state condannate con sentenza definitiva, vengono assolte in seguito a un processo di revisione) […] Nel 2021 i casi di ingiusta detenzione sono stati 565, per una spesa complessiva in indennizzi di cui è stata disposta la liquidazione pari a 24.506.190 euro […] Se invece consideriamo soltanto il 2021, da gennaio a dicembre gli errori giudiziari sono stati in tutto 7; 9 in meno, dunque, rispetto all’anno precedente. Ed è la prima volta, negli ultimi anni, che il numero complessivo degli errori giudiziari scende sotto quota 10”.

La tracotanza e la tendenza dell’individuo a sentirsi una sorta di semidivinità che non erra, si traducono in un voler “cascare sempre in piedi”, senza ammettere la propria imperfezione umana. Si pensi, inoltre, alla gravità che segue all’accusa infondata: alla denigrazione dell’altro pur di assolvere se stessi a livello sociale, lavorativo o scolastico. La diffamazione e la calunnia sono delle armi a “effetto boomerang” e, solo temporaneamente, illudono di aver salvato la posizione e la coscienza dell’individuo.

Il “fallimento” non è un insuccesso ma un successo non ancora realizzato: non è un giudizio finale, irreparabile, causato dagli altri ma deve divenire uno sprone per capire dove non si sia lavorato a sufficienza al fine di limare gli effetti negativi e sanare la problematica. I sogni non raggiunti non possono scadere in una chiusura a riccio che simboleggia nell’altro la causa dell’insuccesso, nel vano tentativo di evitare sofferenze e angosce per colpe proprie. Anziché cercare il capro espiatorio di tutto, è bene evitare di ingannare anche se stessi ed è opportuna una rilettura, interiore e “super partes”, degli eventi.

Le relazioni con il mondo esterno, viziate da un inesistente esame socratico e agostiniano della propria interiorità, possono tendere a uno squilibrio, in buonafede o in malafede, che altera e divide. Il tessuto sociale è, così, compromesso già alla base e risulta il presupposto per conflittualità di grado superiore. In tal caso, infatti, la deresponsabilizzazione si risolve nel “casus belli” di ogni guerra: nell’attribuire all’altro la responsabilità.

Si generano, così, le divisioni, i dualismi e le dicotomie insanabili. “Non è colpa mia” è il motto salvifico del bambino, poi adolescente e adulto, di una generazione, di una fazione politica, di un’amministrazione comunale nel raccogliere l’eredità della precedente, di una nuova maggioranza politica, di un’istituzione statale nel contesto dei rapporti internazionali. Si tratta di uno slogan che fonda il contrasto e costituisce l’essenza dell’odio, di una parte (politico, Stato, società) contro un’altra ritenuta colpevole di tutto e, quindi, da eliminare o sottomettere.

Le “colpe degli altri” sono state spesso utilizzate nei secoli scorsi, in ambito militare, religioso e culturale, per coprirsi di legalità, creare il “nemico” e inviare la povera gente sui campi di battaglia o costringerla a incassare i gravi colpi del conflitto nelle proprie terre. Secoli di storia e di guerre laceranti non hanno insegnato molto.

Il Venerabile Papa Giovanni Paolo I scrisse Quando arrivi al posto di responsabilità al quale sono stato destinato ti si apre il cuore, la mente e lo spirito a maggiore prudenza, a più vasta carità, a più profonda umiltà, ma anche a più forte coraggio e libertà. Tu sai che tutto è sulle tue spalle, tutte le decisioni portano la tua firma. Allora la tua fede diviene totale, il tuo abbandono a Dio, assoluto, la tua carità senza confini, la prudenza e l’audacia camminano insieme”.

Addossare colpe agli altri, pensando di non poter influire sugli eventi, si traduce, molte volte, in una graduale sfiducia verso se stessi. Esteriormente si mostra sicurezza, internamente si è fragili. Un esempio classico è quello post scolastico, in cui si rimprovera, il non aver ottenuto brillanti risultati (nello studio o nel lavoro), al professore che non era in grado di capire la personalità del singolo o non era capace di insegnare. Nell’ingannare gli altri con tali affermazioni discolpanti, si truffa anche se stessi, in quanto si conosce ma si evita di palesare quale sia la vera ragione dell’insuccesso.

Ammettere un proprio errore non fa precipitare l’autostima, al contrario la fonda e la apre al confronto con quella degli altri, in un costruttivo processo psicofisico di crescita personale. È nell’alterità, nel riconoscimento del prossimo come amico e non come rivale che può derivare la soluzione a questo atteggiamento.

Gli ultimi del mondo non hanno forza, interesse e tempo per addossare colpe. Ne avrebbero più motivo degli altri ma conoscono bene l’unica certezza a loro disponibile. La “scorciatoia” della deresponsabilizzazione, infatti, sarebbe l’unica strada che per loro è inutile, che li renderebbe ancora più soli. Al contrario, condividono e interiorizzano anche le responsabilità, in parti eguali.

Marco Managò: