Come spesso accade per i personaggi di spicco di un grande Paese, la Storia riserverà apprezzamenti e critiche, magari anche feroci. A poche ore dall’annuncio delle sue dimissioni, al premier giapponese Shinzo Abe è accaduto più o meno questo. Probabilmente solo il tempo dirà se, davvero, i suoi otto anni alla guida del Paese abbiano restituito al popolo nipponico un Giappone di spessore sul piano internazionale e abbastanza stabile da mantenere l’ordine al proprio interno.
Di certo, ci sono i risultati, per quel che le classifiche possono valere: Tokyo è la terza economia mondiale e, in buona parte, la scalata ai vertici mondiali è coincisa con il governo dell’uomo di Nagato. E del suo ambizioso piano di riforma economica nella cui crasi c’è anche il suo nome. L’Abenomics.
Abe e l’impatto del Covid
Certo, a rimescolare il mazzo è arrivata una pandemia, in grado di incunearsi (e rendere ulteriormente più complicato) nel quadro economico praticamente di ogni Paese. E, naturalmente, di stravolgerlo in negativo, vanificando effetti precedenti e creando ulteriori elementi di negatività. Al momento, Shinzo Abe scontava il ruolo della pandemia, con il primo vero calo nell’indice di gradimento dovuto agli effetti del Covid-19 e all’incertezza sull’andamento dei contagi in Giappone.
Fattori destabilizzanti di un piano di riforma che, pur nei suoi effetti contraddittori, aveva interrotto un periodo di lunga stagnazione per il Paese. Senza riuscire, tuttavia, a imporre un percorso di consolidamento economico, quanto più a scongiurare possibili prolungati periodi di incertezza e stasi.
L’Abenomics
L’obiettivo non era da poco: l’Abenomics si era proposta di rinnovare un sistema che, grossomodo, si rifaceva ancora ai modelli del Dopoguerra. Per far questo il governo Abe, a partire dal 2012 (inizio secondo mandato), aveva adottato la strategia della liberalizzazione dell’impresa e, soprattutto, dello stimolo ai consumi attraverso la concessione di credito in accordo con una politica monetaria espansiva della Bank of Japan. Una mossa che, se da un lato ha prodotto l’immediato effetto di investire risorse nell’ammodernamento del Paese (avviando anche la realizzazione del progetto per i Giochi di Tokyo del 2020), dall’altra non aveva risolto i problemi atavici del Giappone.
Non riuscendo, peraltro, nemmeno a favorire lo slancio demografico di un Paese che, a oggi, fa i conti con il rapido invecchiamento della propria popolazione. Al momento, oltre un terzo dei giapponesi ha più di 65 anni, con il 2019 annus horribilis in quanto a natalità: appena 864 mila nascite, mai cosi poche in 120 anni. Un trend peggiorativo che, di fatto, ha accompagnato tutti gli ultimi tre mandati di Shinzo Abe (il primo fu nel 2006-2007), creando i presupposti per una società sempre più orientata verso il bisogno di assistenza sanitaria e di pensioni. A fronte, naturalmente, di una forza lavoro in calo.
Risultati, mancati e ottenuti
Più volte, il premier giapponese ha insistito sulla necessità di investire sul ruolo delle donne, sostenendo la causa della loro maggior partecipazione al settore produttivo del Paese. Un altro obiettivo interno che, nonostante i proclami, a detta dei critici Abe non è riuscito a perseguire, non riuscendo anzi a risolvere il nodo della disparità di genere nella società nipponica. Un fattore che, unito alla crisi demografica e alla decisione di non rivedere il giro di vite sull’immigrazione, ha contribuito a mantenere su livelli elevati il rapporto fra debito e Pil, il più alto fra quelli dei Paesi industrializzati.
Forse ci avrebbe lavorato ancora, livellando i progetti di riforma sulla base dei tre pilastri pensati per organizzare al meglio la ripresa del Paese (stimolo monetario, aumento della spesa pubblica e riforme strutturali). E, del resto, qualche risultato l’Abenomics lo ha anche ottenuto, come convincere il Cio a farsi affidare le chiavi per le Olimpiadi del 2020 (ora 2021). Come commentato da Axel Berkofsky, Co-head Asia Centre Ispi, “vanno ricordati i diversi progetti infrastrutturali ‘Quality Infrastructure’ in Asia e nel resto del mondo, da intendersi come alternativa alla Belt and Road Initiative portata avanti da Pechino”.
Il Giappone internazionale
D’altra parte, i quattro mandati di Abe il principale punto di forza lo conservano proprio nella politica internazionale. La stabilizzazione economica, pur nelle su difficoltà, ha prodotto l’effetto di riportare il Giappone su un piano elevato a livello geopolitico. Merito in particolare dei buoni rapporti sia con gli Stati Uniti di Trump (con il quale, nonostante il rapporto piuttosto stretto è rimasta la divergenza sulla strategia conciliatoria con la Corea del Nord, mai del tutto approvata da Abe) che con la Russia di Vladimir Putin, nonostante qualche tensione di troppo con i vicini sudcoreani e cinesi.
Senza contare la convergenza sia di Pechino che di Seul nel criticare un atteggiamento considerato revisionista su alcuni episodi quali il Massacro di Nanchino nel dicembre 1937. Come ricordato dallo stesso Berkofsky, a ogni modo, il merito del Giappone internazionale di Abe risiede proprio nella sua capacità di essere riuscito ad accrescere il peso specifico di Tokyo nell’area pacifica. In particolare, “reagendo alle incursioni cinesi nella regione, intensificando i rapporti con Australia, India e Stati Uniti, attraverso il Quadrilateral Security Dialogue, un’idea dello stesso Abe”.
Un Paese diverso
Il premier ha fatto sapere che resterà in carica finché non verrà nominato un successore. Il quale, probabilmente, verrà pescato dal novero dei fedelissimi del suo partito, i Liberaldemocratici (si fa il nome del ministro delle Finanze Taro Aso), con l’obiettivo di finire il lavoro iniziato. Magari con la speranza che gli effetti della pandemia allentino la loro morsa, consentendo al Giappone di lavorare affinché i principi fondanti dell’Abenomics vadano tutti in porto.
Abe chiude con un indice di gradimento al minimo (36%) ma con in tasca il record di premier più longevo (8 anni), l’unico a essere riuscito a imprimere (anche per il lasso temporale maggiore a disposizione) una vera svolta a un Paese che, per vent’anni, ha annaspato in preda alla deflazione. Una strategia nata anche in risposta al disastro di Fukushima e allargata a una pianificazione a livello nazionale. Con i suoi lati positivi e, inevitabilmente, anche quelli negativi.