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Sabella: “La cultura antimafia nasce da quella della legalità”

L'intervista di Interris.it ad Alfonso Sabella, che nella sua trentennale carriera ha affrontato a Palermo la mafia corleonese ed è stato assessore alla Legalità e alla trasparenza a Roma

Un giovane cresciuto a “pane e diritto” con il sogno di diventare il più giovane avvocato cassazionista d’Italia. Il magistrato che, nella Palermo segnata dalle stragi di Capaci e di via D’Amelio, da sostituto procuratore nel pool Antimafia diretto da Giancarlo Caselli cercava sul territorio i latitanti, i loro contatti e i loro arsenali seguendo la “logica della caccia”.

Alfonso Sabella ha vissuto per anni sul fronte della lotta a quella mafia che aveva dichiarato guerra allo Stato. E da quel fronte, “in cui si viveva con l’adrenalina a mille”, sono scaturiti gli arresti di tanti esponenti di vertice della mafia siciliana. Basti ricordare i nomi di Giovanni Brusca, Leoluca Bagarella, i fratelli Graviano. Quegli anni di “caccia” li ha poi raccontati nel suo libro Il cacciatore di mafiosi, pubblicato nel 2008 da Mondadori. Dopo lo scoppio del caso “Mafia Capitale”, detto anche “Mondo di mezzo”, l’allora sindaco di Roma Ignazio Marino lo ha nominato assessore alla Legalità e alla trasparenza di Roma Capitale, poi con delega anche al litorale di Ostia. Nel 2016 Sabella torna alla sua attività di magistrato, come giudice al Tribunale di Napoli.

Un rappresentante della giustizia che, insieme a tanti colleghi e membri delle forze dell’ordine, è stato protagonista di importanti pagine della storia recente del nostro Paese e in questi tre decenni ha visto, conosciuto e affrontato criminalità e corruzione nelle forme che hanno assunto nel tempo. E lancia un’esortazione: “La cultura antimafia nasce dalla cultura della legalità. Dobbiamo cominciare ad abituare questo Paese al rispetto delle regole”. Interris.it lo ha intervistato.

L’intervista

Come ha mosso i primi passi nella sua carriera?

“Sono figlio di avvocati e sono cresciuto a pane e diritto, mia madre è stata la prima donna avvocato della provincia di Agrigento e all’epoca questa non era certo una cosa all’ordine del giorno nell’entroterra siciliano. Non avevo la vocazione a diventare magistrato, infatti volevo essere il più giovane avvocato cassazionista d’Italia. Mi sono laureato all’Università Cattolica con una tesi in diritto civile, avevo come controrelatore il professor Pietro Schlesinger. Poi ho partecipato al concorso in magistratura perché secondo le regole di allora se dopo cinque anni da magistrato ti dimettevi potevi iscriverti direttamente all’albo dei cassazionisti. Ho cominciato a lavorare quando è entrato in vigore il nuovo codice penale, nel 1989, in procura. Mi sono confrontato con quello che stava accadendo in quegli anni, a partire dall’omicidio del ‘giudice ragazzino’ Rosario Livatino ad Agrigento. Ero a Palermo negli anni in cui la mafia sfidava lo Stato. Mi sono trovato a fare una scelta etica e ho deciso di rimanere in procura nel capoluogo siciliano”.

 

Com’era l’atmosfera di quella Palermo?

“Tutti noi, magistrati, agenti di polizia, carabinieri palermitani ci sentivamo come i marinai della Victory alla vigilia della battaglia di Trafalgar, quando l’ammiraglio Horatio Nelson disse ai suoi uomini: “Tutta l’Inghilterra s’aspetta che ciascuno di voi faccia il proprio dovere”. La storia d’Italia passava da Palermo. In quel periodo l’atmosfera era rappresentata dall’espressione sul volto del presidente del Consiglio dei ministri Carlo Azeglio Ciampi al suo arrivo in Piazza della Signoria a Firenze dopo l’attentato. O quella di Caponnetto che in via d’Amelio, quando disse “è tutto finito”. Ma quando abbiamo cominciato ad arrestare Bagarella, Brusca e gli altri, l’atmosfera è cambiata, si viveva con l’adrenalina a mille e iniziavamo a capire che potevamo vincere quella guerra. Io mi occupavo di mafia militare, i gruppi di fuoco. Lavoravo sul territorio alla ricerca dei latitanti, delle loro mosse, dei loro arsenali. Con quelle indagini abbiamo preso gli stragisti corleonesi”.

Livatino

Com’è cambiata la lotta alla mafia dopo le stragi di Capaci e via D’Amelio?

“Grazie al lavoro di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino abbiamo acquisito una grande competenza e delle forze di polizia e una magistratura in grado di affrontare la mafia. Dopo le stragi, lo Stato ci ha dato gli strumenti per questa lotta. Io sono riuscito ad ottenere dei risultati grazie al supporto che mi dava lo Stato e mi chiedo che storia di questo Paese racconteremo, se quegli stessi strumenti li avessero dati anche a Falcone e a Borsellino. Probabilmente una storia diversa e forse a raccontarla sarebbero proprio loro”.

Qual è stato l’impatto, nella lotta alla mafia, degli arresti di figure come Giovanni Brusca e Leoluca Bagarella?

“L’arresto di Bagarella ci ha consentito di invertire la tendenza, abbiamo salvato vite umane e abbiamo capito che potevamo essere noi a vincere. Quello di Brusca è stato una sorte di liberazione, per noi all’epoca era come un’icona del male. E anche grazie alla sua collaborazione abbiamo cancellato la mafia stragista corleonese. Conoscevo tutto di lui e dei suoi uomini, perché quando mi mettevo alla ricerca di un latitante la prima cosa che facevo era studiarne la personalità, il carattere, le relazioni, il modo di muoversi. La logica è quella della caccia. Però, al di là della sua responsabilità di tantissimi omicidi, non era un figura ai massimi livelli del potere decisionale, come invece erano i Graviano o Bagarella. Quest’ultimo era il vero capo militare di Cosa nostra, la mente operativa dietro gli attentati del 1993 a Roma, Firenze e Milano”.

 

Dopo 25 anni Brusca è uscito dal carcere e ora sarà sottoposto a quattro anni di libertà vigilata. Che effetto le ha fatto?

“Nessuno in particolare, queste sono le ‘regole del gioco’. Una legge dello Stato permette la stipula di patti con queste persone: in cambio di informazioni utili, attuali e rilevanti, noi diamo sconti di pena. Queste sono le regole ed è giusto siano state applicate anche per Giovanni Brusca: siamo un Paese civile e ci muoviamo seguendo le regole”.

Lei è stato assessore alla legalità e alla trasparenza del Comune di Roma con delega al litorale di Ostia. Com’è stata quella esperienza?

“C’è una grande differenza tra Roma e Palermo. Mi sono trovato in una situazione in cui la Procura aveva scoperchiato quella quota di malaffare che aveva permesso per anni di dirottare risorse pubbliche nelle tasche di interessi privati, mentre sul territorio continuavano a prosperare mafie di tipo tradizionale. Mi sono confrontato con questo fenomeno di associazioni finalizzate a reati contro la pubblica amministrazione che prosperavano anche per un’incapacità, sostanziale, della macchina amministrativa romana di contrastarle. Pur in questa condizione, grazie al lavoro di persone capaci sono riuscito, per esempio, a fare una gara a evidenza pubblica per affidamento dei servizi sul lungomare di Ostia in tre settimane. Occorre fare un’analisi seria su cosa rallenta l’azione amministrativa, come le competenze che si sovrappongono. A questo Paese serve un nucleo burocratico di altissimo livello e di gran competenza”.

Com’è cambiato il volto della mafia nell’ultimo quarto di secolo?

“La mafia ha dei tempi molto più rapidi di quelli dello Stato e assume la forma dell’acqua: tutto quello che lo Stato lascia libero, lei se lo prende. La mafia 1.0 dei Bontate e dei Badalamenti, che potremmo chiamare “mafia 1.0”, conviveva con lo Stato. Poi abbiamo avuto quella dei corleonesi, la mafia “2.0” – e “2.1”, “2.2”, “2.3” – che ha sfidato lo Stato. Oggi abbiamo una mafia a più alti livelli, che ha capito che la ‘mazzetta’ costa molto meno di un kalashnikov. E ha pure cominciato a capire che in un momento di scarsa liquidità non è il caso di strozzare le imprese, meglio comprarsele”.

Come si forma una cultura antimafia?

“La cultura antimafia passa prima dalla cultura della legalità. In Italia i cittadini sono convinti che se fai le cose seguendo le regole ci impieghi troppo tempo, ma se ti organizzi bene non è così. Dobbiamo cominciare ad abituare questo Paese al rispetto delle regole, di tutte le regole. Dovrebbe farlo più di ogni altro, in un momento come questo, chi è chiamato ad amministrare la cosa pubblica, altrimenti non riusciremo a contrastare le mafie e creare una cultura antimafia. Quando lo Stato priva qualcuno dei suoi diritti, c’è poi chi quei diritti gli vende come se fossero privilegi. Per fare un esempio, se in una città non funziona il meccanismo di assegnazione degli alloggi di edilizia popolare mentre ‘funzionano’ le occupazioni abusive o l’intervento delle organizzazioni criminali nella ripartizione degli immobili, abbiamo perso”.

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