Un’apertura da cui fuoriesce una luce interiore che illumina e rivela agli occhi, propri e altrui, quello che ciascun essere umano si porta dentro. Questo è il potere della settima arte, il cinema, capace di indagare ed esplorare la coscienza e la mente umana con strumenti e sguardi certamente diversi da quelli della scienza, ma in grado di dare delle risposte, differenti o anticipatorie, ancora prima della ricerca e dello studio.
La rassegna
Cinema e salute mentale sono l’essenza del film festival “Lo Spiraglio” di Roma, la rassegna partita tredici anni fa, promossa da Roma Capitale e dal Dipartimento Salute Mentale della ASL Roma 1, diretta per quanto riguarda la parte scientifica dallo psichiatra Federico Russo e per quella artistica dal critico cinematografico Franco Montini. Il festival comincia oggi e andrà avanti fino al 16 aprile, quando si terrà la serata finale al MAXXI – Museo nazionale delle arti del XXI secolo. Quattro giorni in cui saranno presentati i sette lungometraggi e i corti in concorso, tra cui la commedia “An Irish Goodbye” che ha ottenuto una statuetta agli Oscar nella sua categoria, e saranno assegnati i premi Jorge Garcia Badaracco – Fondazione Maria Elisa Mitre, per il miglior lungometraggio, e lo Speciale Samifo Progetto Icare, per il prodotto che saprà meglio rappresentare le vulnerabilità delle persone migranti. Novità di questa edizione è il Premio del Pubblico dello Spiraglio, il riconoscimento che una giuria popolare darà al film che avrà riscosso più apprezzamenti da parte degli spettatori in sala. Infine, quest’anno il Premio Lo Spiraglio Fondazione Roma Solidale Onlus, ricevuto in passato da personaggi del mondo del cinema come Carlo Verdone, sarà conferito al regista Roberto Andò, la cui ultima opera filmica, “La stranezza”, ha portato sul grande schermo la genesi del famoso dramma di Luigi Pirandello “Sei personaggi in cerca d’autore”.
L’intervista
In occasione dell’inizio della tredicesima edizione del festival, Interris.it ne ha approfondito la storia e la peculiarità con il direttore scientifico Federico Russo.
Come nasce l’idea di questo festival?
“Mi sono sempre occupato del rapporto fra il cinema e la psichiatria, tra l’altro due discipline che si accompagnano fin dalla loro nascita all’inizio del ‘900. Circa quindici anni fa decisi di proporre al Comune di Roma il progetto di un festival sulla salute mentale e vi coinvolsi, oltre a esperti, anche diversi operatori della salute mentale e alcuni pazienti. L’esperienza di costruire una squadra eterogenea mi fece avere l’idea di parlare di salute mentale con una prospettiva, un’attenzione, più positiva, che guardasse più alla luce che all’ombra. Da questo punto di vista nasce anche il titolo della rassegna, suggeritomi da paziente: una crepa da cui passa la luce. Quest’anno premiamo il regista Roberto Andò e nel suo film ‘La stranezza’ c’è uno scambio di battute tra Giovanni Verga, il maestro del verismo, e Pirandello, che vuole avvicinarsi alla dimensione della verità fluttuante, dell’inconscio”.
Come si racconta la salute mentale?
“Non è affatto facile parlarne perché non si sa bene come sia la mente e cosa faccia, cosa sia la coscienza, distinguere tra ciò che è normale e cosa è patologico. Mi sono accorto che il cinema, un’opera d’arte che condensa tante arti ma ha anche un aspetto pragmatico, ha più risposte di quante ne abbia la scienza e tratta meglio alcune questioni della salute mentale. Le vicende manicomiali, per esempio, se pensiamo a ‘Qualcuno volò sul nido del cuculo’, così come a ‘Rain Man’ per quanto riguarda l’autismo ad alto funzionamento. Il cinema non può permettersi di lasciare una storia troppo irrisolta e proprio questo è capace di indagare a fondo, di costruire un lieto fine e di parlare di salute mentale. Ci sono attori capaci di rappresentare questo sullo schermo partendo da sé stessi, dalle loro nevrosi e dalle loro paure”.
Per raccontarla cosa si preferisce maggiormente, tra la fiction e la realtà?
“Nelle nostre tredici edizioni ci sono stati tantissima documentaristica e molti prodotti di fiction attenti alla realtà che tratteggiano. Le storie di finzione sono calate nella realtà in modo straordinario, penso per esempio al cortometraggio ‘An Irish Goodbye’ sul tema del ‘dopo di noi’ che ha vinto un Oscar a Hollywood nella sua categoria. Il film racconta la storia di due fratelli, di cui uno con la sindrome di Down, che perdono la madre, e così quello considerato ‘sano’ deve capire come dare un futuro all’altro. Il fratello considerato ‘malato’ ricorre a un trucco per fargli capire quanto l’altro non lo conosca a fondo e quante siano in realtà le sue risorse. Di vicende come queste nel nostro lavoro ne incontriamo tante, il cinema non si allontana troppo dalla vita reale”.
Un altro tema incluso nella vostra rassegna è quello delle persone migranti. Cosa viene raccontato al festival?
“C’è un premio specifico sul rappresentare le vulnerabilità delle persone migranti, lo Speciale Samifo Progetto Icare. Si raccontano i respingimenti e le vicende di chi arriva a piedi in Europa dall’Oriente e prende la rotta balcanica, come in ‘Trieste è bella di notte’. La città italiana rappresenta la speranza, per quei migranti che arrivano fino in Slovenia e riescono a scorgerla da lontano, quando si trovano sui monti. Molte di queste persone fanno esperienza di situazioni traumatiche terrorizzanti che generano in loro reazioni emotive eccessive, che alterano l’equilibrio psichico. Si tratta di eventi come la tortura, gli omicidi, le persecuzioni, i naufragi o i respingimenti”.
Il documentario ‘Percepire l’invisibile’ racconta l’esperienza di alcuni utenti del Dipartimento di Salute Mentale della ASL Roma 1 come autori di un cortometraggio. Qual è il messaggio rivolto a chi guarda?
“Il documentario rappresenta l’esperienza di un laboratorio, dove attraverso il cinema si lavora sull’intrapsichico, mostra le risonanze psichiche del cinema sulle persone con disturbi psichici. Il film racconta la capacità degli utenti di passare dalla situazione passiva a una situazione attiva, quella del creatore della storia, dell’attore, del regista. E’ una chiave simbolica importante, perché bisogna essere attivi nella cura, così come per il cinema”.
Il cinema può essere quindi uno strumento di cura e riabilitazione?
“Lo è decisamente, va utilizzato in modo appropriato. Basti pensare che nella nostra rassegna ci sono diverse persone che sono in cura e si stanno riabilitando. Buona parte del comitato di selezione è composto da nostri utenti”.