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Rosina: “Quali sono le dinamiche demografiche dell’Italia”

L’intervista di Interris.it sugli ultimi indicatori demografici dell’Istat al docente di demografia e statistica sociale dell’Università Cattolica di Milano Alessandro Rosina

L’Italia, con l’aumento della popolazione over65 e la diminuzione di quella attiva, corre il rischio che scatti la “trappola demografica”. Se oggi si fanno meno figli, di conseguenza se ne metteranno al mondo di meno in futuro. Gli effetti, la riduzione degli abitanti della Penisola e soprattutto meno persone che lavoreranno e potranno garantire la crescita economica e mantenere il sistema del welfare del nostro Paese. Un Paese dove l’occupazione femminile si ferma intorno al 50%, dove il numero dei Neet – i giovani e le giovani (le donne sono più della metà) che non studiano, non hanno un’occupazione e non sono inseriti in percorsi di formazione – è il più alto d’Europa. E dove il tasso di fecondità, cioè il numero medio di figli per donna è tra i più bassi  dell’Ue (1,24 contro una media di 1,5) e si è registrato il primato negativo di nascite dai tempi dell’unità d’Italia, meno di 400mila. Secondo l’esperto di demografia Alessandro Rosina, docente universitario della Cattolica di Milano, l’Italia può ancora invertire la rotta ed evitare si restare imprigionata nella tagliola prima che sia troppo tardi. Per riuscirci, deve mettere rapidamente in campo quelle politiche necessarie per far sì che i giovani trovino posto nel mondo del lavoro, si possano permettere l’autonomia abitativa e possano usufruire dei servizi per la conciliazione tra vita e lavoro.

Dinamica demografica sfavorevole

Gli italiano continuano a diminuire e non si arresta la tendenza in discesa delle nascite. E’ questo il panorama del Paese tratteggiato dagli ultimi indicatori demografici pubblicati dall’Istituto nazionale di statistica (Istat) con riferimento al 2022. La popolazione residente in Italia, al primo gennaio 2023, è di 58 milioni e  851mila unità, 179mila in meno sull’anno precedente (-3‰). Sul piano territoriale, un importante calo demografico colpisce il Meridione (-6,3‰), mentre il Centro Italia (-2,6‰) e il Nord (-0,9‰), pur con saldo demografico negativo, hanno valori migliori della media nazionale. Il calo della popolazione è il risultato di una dinamica demografica che vede un eccesso dei decessi, 713mila, sulle nascite, 393mila, non compensato dai movimenti migratori con l’estero. Il saldo naturale, la differenza tra il numero di iscritti per nascita e il numero di cancellati per decesso dai registri anagrafici dei residenti, è  quindi di -320mila unità. Rispetto all’anno precedente il numero dei morti è superiore di 12mila unità, anche se inferiore di 27mila rispetto al 2020. Circa il 40% dei decessi è stato osservato in concomitanza dei mesi più rigidi in quelli più caldi.

Dal Trentino-Alto Adige alla Sardegna

Per quanto riguarda le nascite, la diminuzione dal 2008 – ultimo anno in cui si è registrato un aumento – è di circa 184mila nati e dopo il lieve incremento tra il 2020 e il 2021, l’indicatore congiunturale di fecondità è sceso nuovamente, fino a 1,24, mentre rimane stabile l’età media al parto pari a 32,4 anni. Il Trentino-Alto Adige è la regione con la fecondità più alta d’Italia, con un valore pari a 1,51 figli per donna, mentre la Sardegna è per il terzo anno consecutivo l’unica regione con una fecondità al di sotto della singola unità (0,95).

Popolazione straniera

Leggera crescita della popolazione di cittadinanza straniera, aumentata di 20mila unità (+3,9%), che conta all’1 gennaio 2023 5,5 milioni di persone e un’incidenza dell’8,6%, in leggero aumento rispetto al 2022 (8,5%), sulla popolazione italiana complessiva. Circa il 60% (2,9 milioni) risiede al Nord, il 25%, 238mila, in Italia centrale e infine il 16% nel Meridione.

Un Paese che invecchia

Negli ultimi tre anni l’età media della popolazione residente italiana è salita di otto mesi, passando da 45,7 anni a 46,4 anni. Gli over65 sono oltre 14 milioni a inizio 2023 e costituiscono quasi un quarto del totale (24,1% rispetto al 23,8% dell’anno precedente), mentre gli ultraottantenni salgono a quattro milioni e 530mila (dal 7,6% al 7,7%). Diminuiscono leggermente invece sia gli individui in età attiva, dal 63,5% della popolazione al 63,4%, e gli under14, dal 12,7% al 12,5%.

Foto presa dal sito www.alessandrorosina.it

L’intervista

Per commentare gli ultimi dati demografici resi noti dall’Istat, Interris.it ha intervistato il professore ordinario di demografia e statistica sociale all’Università Cattolica di Milano Rosina, anche coordinatore scientifico dell’Osservatorio giovani dell’Istituto G. Toniolo. Il suo ultimo libro, scritto insieme al docente dell’Università di Bologna Roberto Impicciatore, si intitola “Storia demografica d’Italia”.

Professore, come siamo arrivati a essere 58,8 milioni?

“La ragione è che il numero medio di figli per donna è sceso sotto due, la soglia di equilibrio tra generazioni – in media due genitori sono poi ‘sostituiti’ da due figli e così via -. L’Italia scesa sotto questo equilibrio dalla metà degli anni Settanta, quando da una media di due figli per donna si è passati a 1,5, per poi continuare a diminuire ancora. Il tasso di fecondità nel nostro Paese oggi è di 1,24 figli per donna, ben al di sotto quindi di due. Se il numero medio resta basso a lungo, l’effetto è che le generazioni giovani saranno sempre di meno, con la conseguente riduzione della capacità endogena di riproduzione della popolazione. Si tratta di una trappola demografica, meno figli oggi significa meno figli domani e via dicendo”.

Nel 2022 la natalità ha registrato il record negativo dall’unità d’Italia. A cosa è dovuto il basso numero di nascite?

“Da dieci anni ripetiamo che ogni anno si batte il record negativo del precedente: nel 2014 siamo scesi sotto quota 500mila e oggi siamo arrivati a 400mila. Ripeterlo non cambia le cose e dopo qualche giorno la cifra viene dimenticata, mentre si continua a erodere la piramide demografica. Siamo un Paese in cui si vive sempre più a lungo, nel 2050 gli over65 saranno cinque milioni in più di oggi, e questo va bene, ma serve creare una società che consenta di pagare e rafforzare le pensioni e di finanziare il sistema di welfare. Se invece la popolazione giovanile in età attiva diminuisce via via, peggioreranno la crescita economica e la tenuta del sistema sociale. Secondo l’Ocse, l’Italia rischia di raggiungere nel 2050 un rapporto di uno a uno tra la popolazione pensionata e chi lavora. Uno scenario insostenibile, che spingerà i giovani ad andare all’estero”.

Quali sono le cause?

“Possiamo evidenziare tre punti critici: le difficoltà nella transizione scuola-lavoro per i giovani; la carenza di politiche abitative; la conciliazione tra lavoro e famiglia. I giovani si trovano a scivolare nella condizione di Neet, abbiamo il record in Europa con quasi il 29% dei giovani tra 25-34 anni che sono dipendenti economicamente dai genitori, non sono parte attiva nel processo di sviluppo e crescita del Paese, non hanno un reddito adeguato e continuato. Oltre a questo, c’è una carenza delle politiche abitative soprattutto, nelle grandi città, e gli alti costi dei mutui, con il conseguente rinvio dell’autonomia dalla famiglia di origine e dell’arrivo del primo figlio. Siamo il Paese con l’età media di arrivo del primo figlio per donna più tardiva in Europa, quasi 32 anni. Alla nascita del primo figlio c’è il problema della conciliazione tra lavoro e famiglia, altrove gli strumenti messi in campo consentono di mantenere un’occupazione femminile più elevata e un tasso di fecondità più elevato rispetto a quelli dove i servizi sono scarsi. Mentre con l’arrivo del secondo figlio si fanno sentire le difficoltà economiche e c’è chi è esposto al rischio povertà. Per questa serie di motivi siamo il Paese con il maggior divario tra numero figli desiderato, due, e numero di figli realizzato, 1,24 – nonostante nemmeno Svezia e Francia facciano più tanti figli quanti negli anni Cinquanta”.

La tendenza alla diminuzione della popolazione continua, dice Istat, ma con una minore intensità. Come lo si spiega?

“La popolazione è ormai in declino irreversibile, diminuisce dal 2014, continuerà a scendere e nell’anno della pandemia la decrescita si è accentuata, per via della minor natalità e dell’aumento decessi. Questi ultimi adesso sono un po’ scesi e assistiamo a un aumento degli 80-90enni, che alimenterà una crescita dei decessi della componente più fragile della popolazione. Da un lato la riduzione dei decessi e le immigrazioni più vivaci dall’altro hanno rallentato la diminuzione”.

Quale ruolo può svolgere l’immigrazione nelle dinamiche demografiche del nostro Paese, nel presente e nel futuro?

“Dati gli squilibri sopracitati, non tanto la riduzione della popolazione ma l’aumento di quella anziana e la diminuzione di quella attiva – oggi i trentenni sono un terzo dei cinquantenni -, l’immigrazione può avere un ruolo positivo. In alcuni settori si sente infatti la mancanza di manodopera, per cui l’immigrazione serve. inoltre se inclusa e integrata può aumentare la natalità. Certo, se anche le persone immigrate si trovano nelle stesse condizioni degli italiani, anche loro rischiano di rivedere a ribasso le loro scelte. Le condizioni di giovani, donne e immigrati ci devono far guardare d’insieme le politiche di integrazione, quelle per i  giovani e quelle del lavoro”.

Risultano differenti dinamiche demografiche tra Nord-Sud e centro-periferia?

“Precisamente, tra Settentrione e Meridione e tra le grandi città e le aree interne montane. La maggior parte degli squilibri demografici si registra soprattutto nell’Italia meridionale, perché nel Nord ci sono comunque condizioni economiche migliori, un numero di Neet più basso, minore rischio povertà all’arrivo di un figlio, più servizi per l’ infanzia e per la conciliazione famiglia e lavoro. La fecondità è diminuita maggiormente al Sud rispetto a una ventina di anni fa. E giacché nel Mezzogiorno c’è un maggior rischio di risentire dei punti critici esposti prima, i giovani si spostano non soltanto verso l’estero ma anche nel Nord Italia alla ricerca di migliori opportunità. Inoltre, le grandi città attirano giovani che lasciano i contesti territoriali più periferici. Abbiamo così parti del Paese che si spopolano, questo rappresenta un grave problema sia per la garanzia dei servizi sociali minimi sia perché la presenza umana consente anche la cura del territorio, altrimenti esposto, per fare un esempio, al rischio dissesto idrogeologico”.

Gli effetti del cambiamento climatico incidono sulle dinamiche demografiche?

“L’instabilità climatica, come quella politica e non solo, incide sui flussi migratori generando aree che si desertificano e cataclismi. In Italia invece interessano la popolazione anziana e possono farsi ‘sentire’ sulle oscillazioni dei decessi”.

In Italia un individuo su quattro ha almeno 65 anni. Un Paese anziano quali prospettive ha? E come si può invertire le tendenze di denatalità e di calo della popolazione?

“In particolare la diminuzione avviene su due dimensioni, con alcune aree dell’Italia che si svuoteranno fortemente e per età, perché la popolazione anziana crescerà e il sistema paese diventerà più fragile. Se adesso applicassimo politiche pensate per le nuove generazioni, per agevolare la transizione dalla scuola al lavoro, per i servizi per l’infanzia e per gli aiuti economici alle famiglie con figli ai livelli di altri Paesi come la Germania, portando l’ assegno unico a 200 euro di base, o Svezia e Francia, dove i servizi coprono il 50% della fascia 0-2 anni, e riducessimo la percentuale di Neet, potremmo superare le 500mila nascite nell’arco di dieci anni. Ma più aspettiamo e più questo obiettivo sfumerà, perché ci saranno meno persone per fare figli. Siamo ancora in tempo, ma dobbiamo agire con determinazione”.

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