Più giustizia sociale per mettere al fine al lavoro minorile, lo sfruttamento di bambini e adolescenti che vivono spesso, con le loro famiglie, in condizioni di bisogno e finiscono per essere impiegati a svolgere mansioni. Queste sono in molti casi non dignitose e pericolose e privano i più piccoli e i ragazzi dei loro diritti, tra cui quello all’istruzione e quello al gioco. Inoltre, possono compromettere la loro salute e il loro sviluppo psicofisico. Oggi quasi un bambino su dieci in tutto il mondo è ancora impegnato nel lavoro minorile, nove su dieci complessivamente tra in Africa (72 milioni, dati Onu) e Asia (62 milioni). Questo nonostante dal 2000 in avanti si siano compiuti costanti progressi nel contrasto al fenomeno, con una riduzione dal 16% al 9,6% (oltre 85 milioni). Una tendenza positiva che però oggi sembra aver fatto inversione di marcia.
Il tema dell’edizione di quest’anno della Giornata mondiale contro il lavoro minorile delle Nazioni unite è “giustizia sociale per tutti, mettere fine al lavoro minorile”. In occasione di questa data, Interris.it ha intervistato il direttore generale dell’Ufficio Italia e San Marino dell’Organizzazione internazionale del lavoro (Oil) Gianni Rosas.
L’intervista
Qual è l’esatta definizione di lavoro minorile?
“In generale è l’attività lavorativa che priva i bambini dell’infanzia, della dignità, influisce sul loro sviluppo psicofisico e gli nega diritti come quello all’istruzione, al gioco e agli affetti. Si tratta di lavori pericolosi, dello sfruttamento sessuale, o del reclutamento di bambini nei conflitti armati. La definizione giuridica di lavoro minorile riguarda i casi di lavoro svolto da ragazzi che rientrano nella fascia di età coincidente con l’obbligo scolastico, ma non solo. Anche quelli in cui si lavora prima di aver raggiunto i 15 anni, l’età minima di ammissione al lavoro stabilita dall’Oil, o in altri casi prima di aver compiuto la maggior età”.
Come valuta i dati e l’andamento del fenomeno a livello globale?
“La stima mondiale più attuale di cui disponiamo oggi contiene dati risalenti al 2019, precedenti agli impatti della pandemia, soprattutto in termini di aumento della povertà nei Paesi in via di sviluppo, e registra 160 milioni di bambini costretti ad andare a lavorare. Ottanta milioni in più rispetto ai 152 della precedente rilevazione quinquennale, pubblicata nel 2015. Per circa un ventennio, dall’inizio del nuovo millennio, c’è stata una tendenza positiva, con una costante riduzione che ha tolto dal lavoro minorile oltre ottanta milioni di bambini e adolescenti. L’ultimo periodo segna invece un cambio di tendenza che, si presume, sarà stato ancora più accentuato dalla pandemia. C’è da osservare inoltre una disfunzione dell’economia globalizzata, a fronte di questi 160 milioni di bambini sfruttati ci sono 200 milioni di giovani e adulti disoccupati”.
Quali sono le cause del lavoro minorile?
“Sono diverse. Sui grandi numeri, l’incidenza maggiore è dovuta alla povertà nei Paesi più poveri come quelli dell’Africa subsahariana, agli eventi politici, come le guerre che costringono i bambini a impugnare le armi o il fenomeno, collegato, degli spostamenti massicci di persone. Con il conflitto in Siria abbiamo assistito a un incremento esponenziale del lavoro minorile tra rifugiati siriani. Ancora, tra le cause, ci possono essere gli effetti dei disastri naturali”.
Quale impatto ha il lavoro minorile sulla salute e sullo sviluppo psicofisico dei giovani e dei giovanissimi?
“Chi viene reclutato nei gruppi armati cresce con dei paradigmi non democratici e con mancanza di rispetto verso le istituzioni. Nell’industria tessile si utilizzano agenti chimici pericolosi per la loro salute. Ci sono inoltre i rischi psico-sociali, basti pensare alle condizioni di quei bambini che vengono fatti entrare in cunicoli di un metro per raccogliere, a mani nude, il cobalto con cui si producono i nostri computer e i nostri smartphone. Dal lavoro minorile derivano tante cose che, per esempio, indossiamo e mangiamo. E’ stato inoltre osservato un altro fenomeno, una sorta di circolo vizioso: quei bambini che anziché andare a scuola vanno a lavorare, da adulti diventano lavoratori poveri che si trovano costretti a loro volta a far lavorare i loro bambini”.
Di quali strumenti disponiamo per la prevenzione e il contrasto di questo fenomeno?
“Politiche sociali per chi rientra ancora nella fascia d’età per cui è previsto l’obbligo scolastico, con strumenti di identificazione precoce dei giovani che stanno uscendo dal sistema dell’istruzione, e politiche del lavoro per chi ha raggiunto l’età minima per trovare un impiego. Serve inoltre un impegno su scala mondiale per l’applicazione della Convenzione dell’Oil per l’eliminazione del lavoro minorile. E’ importante che i bambini e i ragazzi vadano a scuola e per garantire il loro diritto allo studio, messo a rischio dalla condizione di povertà in cui versano molte famiglie, servono strumenti di protezione sociale o incentivi per riportarli in classe, se le hanno già lasciate. Abbiamo osservato che in Sud America il lavoro minorile è diminuito quando sono stati introdotti incentivi e sussidi per le famiglie che faticano ad affrancarsi dal bisogno. A coloro che sono già in età da poter essere ammessi al lavoro ma si trovano in situazioni pericolose occorre garantire migliori condizioni per la loro sicurezza e per la loro salute psicofisica e morale. Poi c’è la questione del lavoro minorile ‘paralegale’, connesso alle filiere globali in cui l’organizzazione del lavoro è frammentata e dove succedere che i bambini finiscano per restare a casa a lavorare. Oggi le imprese sono più attente e ritengono prioritari i controlli tra i loro lavoratori affinché non ci siano minori. Diversi Stati, come i Paesi bassi, hanno adottato restrizioni rigide per loro imprese”.
Qual è la situazione del fenomeno nel nostro Paese e da cosa è determinata?
“In Italia abbiamo sacche di lavoro minorile ma non abbiamo dati, quindi dobbiamo dotarci di strumenti che ci consentano di misurarne incidenza, di individuare le aree geografiche e i settori economici, di risalire alle cause. Per debellarlo occorrono segnalazioni precoci dell’abbandono scolastico e ispezioni nei luoghi di lavoro”.