E’ in uscita nelle librerie nei prossimi giorni, a ridosso della beatificazione del 9 Maggio, il libro “Un giudice come Dio comanda”, dedicato alla figura del magistrato Rosario Livatino, assassinato il 21 settembre 1990 all’età di 38 anni.
Per scoprire chi era il giudice e l’uomo Livatino, tre esponenti del Centro Studi a lui dedicato hanno composto queste pagine, dense di storia, atti di processi e pagine dai diari personali del magistrato che non piaceva ai mafiosi. Si tratta di Alfredo Mantovano, Domenico Airoma e Mauro Ronco, tre colleghi di Livatino che vedono nel giudice agrigentino qualcosa di più di un modello professionale da imitare.
Ne parliamo con il giudice Domenico Airoma, attualmente procuratore aggiunto del tribunale di Napoli Nord.
Qual’è l’obiettivo del vostro libro sulla figura del giudice Livatino?
“Siamo partiti da questa impostazione: raccontare la figura di Livatino come magistrato. Quindi abbiamo pensato di illustrare il modo e il contesto in cui egli ha lavorato.
Quando pensiamo a un magistrato assassinato dalla mafia, il pensiero corre inevitabilmente a magistrati come Falcone e Borsellino. Ma Livatino in cosa si differenzia da loro?
Di certo, lo accomuna a questi colleghi la grande professionalità, la ricerca puntigliosa della prova che pure era qualità di Falcone e Borsellino, magistrati che hanno messo in piedi il maxi processo con un’attenzione maniacale alla prova. Così come altra caratteristica comune è la passione del lavoro giudiziario. In Livatino, la puntigliosità era arcinota in ambienti giudiziari. Tutti i colleghi confermano il fatto che era molto stimato per la sua dedizione al lavoro, alla ricerca della prova e alla garanzia degli imputati. Egli trascorreva gran parte della sua giornata in ufficio, ci hanno confermato che nella pausa pranzo era solito non allontanarsi dall’ufficio e bere solo un bicchiere di latte…”.
Dove sta allora, la differenza con questi grandi magistrati servitori dello Stato?
“Dobbiamo dire che c’è qualcosa che fa la differenza rispetto a Falcone e Borsellino.
Dobbiamo fare una composizione di luogo quando si pensa al sacrificio di Livatino. Egli lavora in una piccola provincia sicula, Canicattì, che è sorta di isola nell’isola. Ciò è diverso da lavorare a Palermo. Quando nella tua stessa cittadina c’è il capo della cosca locale, che magari abita nel tuo stesso edificio, le cose si complicano… Questo significa avere un tale attaccamento al dovere che non è qualcosa di circoscrivibile solo all’ambito professionale.
Ecco quindi, oltre all’ambiente di lavoro, un ulteriore ambito che differenzia Livatino da Falcone e Borsellino, senza nulla togliere naturalmente al loro operato e al sacrificio della loro vita! Per loro il lavoro giudiziario aveva una grande nervatura morale, carica di idealità. Ma in Livatino il rendere giustizia è qualcosa di più: è vocazione.
Il rendere giustizia è dedizione di sé a Dio, è preghiera, Se questo noi lo calibriamo rispetto al contesto storico e geografico, capiamo perché lui è stato assassinato in odium fidei.
Se leggiamo le dichiarazioni che sono state rese nel processo, l’attentato era stato programmato per essere realizzato fuori dalla chiesa di S. Giuseppe dove lui si recava quotidianamente a pregare”.
La componente religiosa nel giudice Livatino è stata quindi fondamentale per il suo barbaro assassinio?
“Livatino veniva definito spregiativamente dai mafiosi come ‘il santocchio’.
Era noto che per Livatino il rendere giustizia fosse strettamente connesso alla sua fede. Venne assassinato come giudice credente.
Mente Falcone e Borsellino vennero assassinati come giudici eccelsi che facevano il loro dovere, Livatino vene e ucciso come giovane magistrato credente, per questa sua nervatura spirituale e religiosa.
Questa è la componente eroica agli occhi del mondo: quando Livatino opera, non esistono ancora una serie di strumenti normativi che poi sono stati introdotti. Lui operava veramente in una condizione rudimentale. E nonostante ciò ha raggiunto straordinari risultati”.
Dal punto di vista professionale, quali sono stati i successi per la giustizia ottenuti dal lavoro del giudice Livatino?
“In materia di misure di prevenzione egli è stato veramente un maestro, tanto che sono ancora riportate in calce al codice commentato in materia di prevenzione. Parliamo di misure come mandare via un mafioso dal suo contesto locale e privarlo dei beni. Sono provvedimenti che risultano peggio del carcere per i mafiosi…
L’ultimo provvedimento che lui ha depositato fu una misura di detenzione applicata nei confronti di alcuni mafiosi del proprio paese. Lui avrebbe potuto astenersi dal firmarli e farli depositare a qualcun altro. Un suo collega mi disse che quasi si arrabbiò perché lui non voleva che si esponessero altri a nome suo”.
E’ vero che il giudice Livatino, nonostante la pericolosità delle sue inchieste, viaggiava completamente senza scorta?
“Livatino non ha fatto nessuna pressione per avere scorte o tutele, questo a detta di altri colleghi è stata la ragione che lo indusse persino all’abbandono dall’ipotesi alle nozze con la sua fidanzata. Egli probabilmente sentiva crescere il pericolo, verosimilmente in nell’ultima fase recise quindi i legami con questa persona.
Questo è l’uomo Livatino, un modello nella cui vita troviamo tratti di esemplarità.
Mai come nel caso Livatino trova applicazione la famosa frase: ‘questo è il tempo che più di maestri ha bisogno di testimoni’: basta scorrere la sua vita e questo si trova.
Livatino ha scritto solo due conferenze, ma anche senza di quelle non sarebbe cambiato nulla.
Nelle sentenze da lui scritte troviamo la conferma di quello che lui viveva”.
Qual’è il messaggio che volete lasciare con il vostro libro?
“In questo libro ci interessa dire che Livatino è il modello per i magistrati; scherzando diciamo che si può diventare santi anche facendo i giudici.
Ma lui è un modello per chiunque lavori nelle istituzioni, perché significa che si può essere uomini delle istituzioni senza nascondersi. Quando si parla di Livatino, se non lo si presenta in tutta la sua dimensione anche culturale gli si fa un’ingiustizia. Egli ha posto il problema del fondamento di verità nel diritto, lui cerca la luce.
Livatino è poi un modello per tutti i laici cattolici perché dimostra che oggi l’antidoto a questa deriva relativista è la necessità incanalata nella sua vita di vivere la fede in maniera coerente con la cultura e con la vita”.
Che modello di giudice attuale anche per i nostri tempi emerge dalla testimonianza di Livatino?
“Livatino è l’antitesi del magistrato come emerge oggi dal sistema di Palamara, ma è anche l’antitesi di un altro modello di magistrato che si sta affermando in questi anni, presentato come il magistrato che si sostituisce al legislatore, che si atteggia ad élite tecnocrate del Paese. Livatino dice chiaramente che il magistrato non può creare la norma ma deve limitarsi a interpretare la norma. Una delle frasi che egli soleva ripetere e che dovrebbe essere scolpita in tutte le sedi di giustizia è questa: ‘per giudicare occorre la luce e nessun uomo è luce a se stesso’”.