Un magistrato ucciso per aver svolto con dedizione il suo servizio allo Stato. Giovane sì, ma non un ragazzino. Assassinato brutalmente dalla Stidda agrigentina, lontano dal clamore mediatico, sulla stessa strada dove, solo due anni prima, era stato freddato il collega Antonino Saetta. La memoria del magistrato Rosario Livatino, a trent’anni dal suo omicidio, ha travalicato le campagne agrigentine dove fu ucciso. Con atroce freddezza, abbandonato fra le pietre roventi scaldate dal sole della sua Sicilia. Su una strada, la SS 640, dal nome poetico ma protagonista di una spietata stagione di sangue.
La Strada degli Scrittori: un omaggio a quei siciliani, che più di tutti seppero descrivere e dipingere con le parole ogni volto della propria terra. Macchiata, quella mattina, da bruciature sull’asfalto, da resti di lamiere. Infine dal sangue di un servitore del Paese. Sotto gli occhi di un testimone che scelse di non tacere, consegnando agli inquirenti gli strumenti giusti per identificare i suoi killer.
Dedizione a costo della vita
La vita del giudice Livatino fu interrotta prematuramente da una scia di violenza che aveva già prodotto picchi di brutalità. Ma che, di lì a pochi anni, avrebbe assunto le proporzioni di una vera e propria guerra, una sfida dichiarata da parte della criminalità organizzata allo Stato italiano. Le cicatrici di Capaci e Via D’Amelio porteranno firme diverse, ma adottando lo stesso marchio di ferocia. Come i suoi colleghi, anche il giudice di Canicattì conduceva le sue inchieste, tra faldoni e dossier, cercando di garantire alla sua terra la tutela del suo volto di legalità.
Una dedizione che gli costerà la vita, giovane e impregnata dal sostegno di una fede incrollabile: “L’ho conosciuto come praticante procuratore legale di Agrigento – ha raccontato a Interris.it il magistrato Alfonso Sabella -. Una persona deliziosa, stimatissima. Io sono entrato in Magistratura qualche anno dopo di lui e ricordo la rabbia che sorse in noi, giovanissimi magistrati, quando apprendemmo della sua morte. All’entrata in vigore del nuovo codice, ci sentivamo abbastanza abbandonati dalle istituzioni, lavorando senza ottenere grosse soddisfazioni, sommersi da montagne di carte senza un’adeguata rimodulazione degli organici”.
Il ricordo del giudice Livatino
Erano trascorsi solo otto mesi dall’omicidio del giudice, quando l’allora Presidente della Repubblica, Francesco Cossiga, utilizzò l’epiteto di “giudici ragazzini” per indicare alcuni giovani magistrati impegnati nelle inchieste di mafia. Parole che, pur senza far riferimento a Livatino, colpirono nel profondo di un’intera generazione di servitori dello Stato: “Ricordo un’assemblea a Marsala, di giovanissimi magistrati, poco prima di essere insultati tutti dal presidente Cossiga, dopo la morte di Rosario, in cui ci lamentammo di questa situazione di abbandono”. Anche in questo senso, l’omicidio del giudice rappresentò un punto di non ritorno: “Per me – ha spiegato Sabella – la sua morte determinò una ferita enorme. E non solo per un ricordo personale, molto vago, di averlo incontrato al seminario di Agrigento quando ero nel settore giovanissimi Azione Cattolica”.
Il bene degli altri
All’impressione suscitata dalla brutale esecuzione corrispose una decisione: “La cosa che mi fece cambiare abitudini di vita fu il fatto che, mio malgrado, da quel momento iniziai a girare armato. Io mi occupavo di fatti di criminalità organizzata, anche se non di mafia, e le modalità in cui fu ammazzato Rosario mi lasciarono perplesso. Lui non è stato oggetto di un attentato organizzato dai grandi professionisti criminali di cosa nostra ma da quattro balordi della Stidda. E’ chiaro che, se avesse avuto una scorta, nessuno lo avrebbe toccato”.
Un sacrificio che segnerà indelebilmente la concezione di una professione in cui la priorità suprema è il bene della collettività: “Rosario segnava l’icona della nostra generazione di magistrati, in qualche modo mandati allo sbaraglio a salvare l’entrata in vigore del nuovo Codice di procedura penale, a coprire i buchi delle Procure rimaste vuote, a cercare di colmare l’inefficienza dello Stato. E poi, oltre il danno, la beffa degli insulti ricevuti dal Presidente della Repubblica”.
Messaggio a una generazione
Il lavoro del giudice Livatino, ucciso nel pieno di un’attività investigativa che avrebbe portato alla luce la cosiddetta Tangentopoli siciliana, verrà proseguito da chi, come lui, aveva scelto di consacrare la propria vita al servizio del bene collettivo. Una generazione di giovani magistrati che vedrà nella sua figura, dedita fino all’estremo sacrificio, un esempio da seguire: “Sicuramente la figura di questo ragazzo, che più o meno consapevolmente ha deciso di mettere a rischio la sua stessa vita, svolgendo un lavoro pericoloso in un determinato contesto spazio-temporale, è chiaramente quella di un eroe positivo, moderno”.
“Uno di quelli che fanno pensare come, al di là delle proprie ambizioni e del proprio interesse personale, la tutela dei diritti della collettività, del diritto naturale, della dignità delle persone e della loro libertà, siano motivi per cui vale la pena sacrificare la vita”. Un messaggio consegnato nelle mani di altri giovani come lui. “Ci fece capire che nel nostro lavoro non si può prescindere da una grandissima componente etica e morale, l’unica cosa che ti può spingere fino all’estremo sacrificio”.
Un segnale
Ogni anno, il 21 settembre, la sua Canicattì lo ricorda. Onorando una memoria che continua a raggiungere ogni angolo del Paese, come esempio di estrema dedizione. Anche per questo, la notizia di un permesso premio concesso a uno dei mandanti del suo omicidio proprio durante la settimana di avvicinamento al trentesimo anniversario dell’omicidio, non ha potuto non provocare sentimenti di amarezza: “Quello che fa male – ha spiegato a Interris.it il giornalista antimafia Paolo Borrometi – non è tanto il permesso premio. E’ un diritto dei detenuti. Non entro nel merito del diritto, non sono io il giudice e non posso minimamente addentrarmi in un campo che non mi compete. La circostanza consigliava di non dare il permesso proprio nella settimana delle commemorazioni. Ancora una volta, si è dato un segnale. La mafia si nutre di segnali, una linfa vitale che non bisogna mai darle“.
Un grido nella Valle
Resta però la memoria. Quella di un magistrato che, come altri prima e dopo di lui, ha cercato di dare un senso compiuto al proprio dovere morale. “Rosario Livatino innanzitutto era un giudice dalla schiena dritta. Un giudice come ce n’erano in quel periodo, che non si piegava e non era minimamente avvicinabile. E, fra l’altro, è colui che influenzò seppur indirettamente l’attacco alla mafia che Giovanni paolo II fece nella Valle dei Templi. La mattina della messa di san Giovanni Paolo II incontrò la madre di del giudice, che gli raccontò la storia del figlio. Fu quella storia a portare il Papa a pronunciare quelle parole”. Un grido che risuonò fra le vestigia delle antichità siciliane: “Convertitevi”.
Una presa di coscienza
L’omicidio del giudice Livatino inaugurò una nuova stagione della lotta alla criminalità organizzata, nella quale il nostro Paese si sarebbe ben presto trovato di fronte ad alcune delle sue sfide più atroci. Una battaglia cosparsa dal sangue di uomini dello Stato, che pose forse per la prima volta la Nazione intera di fronte a una fondamentale presa di coscienza. “Qualcuno pensa che non ce ne sia più bisogno, chi sostiene purtroppo che le mafie siano state sconfitte. Le figure come Rosario Livatino sono fondamentali per i giovani, per i credenti e per chi tramite lui si è impegnato in magistratura, a combattere una battaglia di impegno quotidiano”. Anche a costo della vita.