“Awaken new depths“, ossia “Risvegliare nuove profondità“, è il tema scelto per il 2024 per la Giornata mondiale degli oceani 2024, un appuntamento che si celebra in tutto il mondo ogni 8 giugno. Istituita nel 2009 per volere delle Nazioni Unite, la ricorrenza si prefigge l’obiettivo di aumentare la consapevolezza sui benefici di mari e oceani e sulla necessità di garantire la sostenibilità delle sue risorse.
L’intervista
Interris.it ha parlato delle condizioni degli oceani con il professor Cosimo Solidoro, direttore della sezione di Oceanografia dell’Istituto nazionale di Oceanografia e Geofisica sperimentale di Trieste.
Qual è lo stato di salute degli oceani?
“In generale possiamo dire che è una situazione sfidante, difficile. Ci sono segnali chiari, macroscopici, che a livello globale destano preoccupazione. Parliamo degli aspetti legati ai cambiamenti climatici, al riscaldamento, l’aumento della Co2 sia nell’atmosfera sia nell’acqua che crea acidificazione dei mari. Inoltre, cambiando la salinità e la temperatura, anche l’acqua subisce delle modifiche, anche per quel che riguarda le correnti. In più c’è tutto il tema dell’inquinamento”.
Può spiegarci meglio?
“E’ un tema davvero rivelante, parliamo sia degli inquinanti ‘tradizionali’ sia di quelli che oggi non vengono usati più, come ad esempio il mercurio, scaricato manre 30-40 anni e che si è accumulato in mare. Poi ci sono i composti ‘emergenti’ di cui sappiamo molto poco, come ad esempio delle medicine che assumiamo e che, smaltiti dal nostro organismo fisiologicamente, finiscono in mare; gli inquinanti ‘perenni’, sostanze e molecole che vengono utilizzate nelle pentole antiaderenti o nelle giacche per renderle impermeabili. Prima o poi, finiscono in mare e restano lì magari per centinaia di anni. Questi elementi hanno tutti un effetto diverso, e a volte si miscelano e non sappiamo quali conseguenze possono avere sull’ambiente. Ecco che ci troviamo ad affrontare una serie di inquinanti che non sono ben codificati”.
Per la giornata mondiale degli oceani 2024 è stato scelto il tema “Risvegliamo nuove profondità”. Quanto conosciamo degli abissi marini?
“Spesso si sente dire che conosciamo meglio la superficie di Marte o della Luna che le profondità degli oceani. Un’affermazione che potrebbe rispecchiare la realtà. Riteniamo che circa l’80% dei fondali marini non siano noti, ossia non sappiamo che forma hanno, a che profondità si trovano, come sono composti, se c’è la vita e di che tipo. Sono partite una serie di attività per aumentare questa nostra conoscenza, ma non è semplice, è un’attività lunga e laboriosa, richiederebbe un grande sforzo coordinato, ma c’è un rischio”.
Quale?
“Il rischio più grande è che questo sforzo coordinato non sia sospinto dalla voglia di conoscere i nostri fondali, ma dalla corsa verso lo sfruttamento di una potenziale risorsa. Ora che trovare i materiali a terra è diventato più costoso, sta prendendo piede il cosiddetto ‘deep sea mining’, ossia l’andare a sfruttare non solo gas e petrolio, ma anche i minerali che si trovano sul fondo dell’oceano. Un’idea di cui possiamo comprendere la razionalità, ma che potrebbe avere un impatto devastante e che andrebbe eventualmente condotta con limiti e criteri ben precisi”.
E’ possibile attribuire un valore economico agli oceani?
“Fino a circa trenta anni fa era un dibattito che non piaceva molto. Successivamente sono stati fatti dagli studi per dare un valore economico ai servizi ambientali ed ecosistemici. Potremmo provare a dare un valore economico al fatto che gli oceani assorbono parte della Co2 che si trova nell’atmosfera. Ma il punto è un altro”.
Cosa intende?
“Bisogna ragionare se sia giusto o meno dare un valore economico, dovremmo considerare che la natura di dona gratuitamente tutto quello che ha a sua disposizione, ma noi non dovremmo approfittarne. Il rischio è quello di avere un impatto troppo alto sulla natura senza renderci conto del danno economico che stiamo causando. A me non piace attribuire un valore agli oceani, ma se lo dovessimo fare si tratterebbero di numer importanti, paragonabili al Pil di uno stato”.
Quali le principali politiche che i governi dovrebbero mettere in pratica per tutelare gli oceani?
“Ce ne sono molte, alcune hanno soprattutto valenza di sensibilizzazione. Circa 15 anni fa è stato lanciato il Gruppo intergovernativo sui cambiamenti climatici (Ipcc), successivamente la Piattaforma intergovernativa sulla biodiversità e i servizi ecosistemici (Ipbes) che opera a livello planetario. Cinque anni fa è uscito il primo rapporto, ora sta per essere pubblicato il secondo. Un documento sostenuto da diverse nazioni che ha come obiettivo principale quello di capire come stiamo e sensibilizzare. Parallelamente, le Nazioni Unite hanno istituito, dal 2021 al 2030, il decennio del mare, una serie di azioni a livello di promozione. Poi ci sono le norme, la più recente punta a far diventare area protetta il 30% degli oceani entro il 2030. Gli oceani sono di fatto terra di nessuno: nessuno ha il diritto di sfruttarlo ma sicuramente nessuno ha il dovere di preservarlo. Ed è per questo che fare trattati sul ‘deep sea mining’, sulle estrazioni petrolifere, sulla lotta contro la pesca indiscriminata o altre azioni per preservarli è difficile”.