Verso le nove di sera di questo giorno, trentanove anni fa, in via Isidoro Carini a Palermo la mafia siciliana ha cercato di spegnere la speranza di chi credeva nella legalità e nella giustizia con l’uccisione del Prefetto di Palermo Carlo Alberto dalla Chiesa. Nell’agguato furono uccisi anche la moglie Emanuela Setti Carraro e l’agente della scorta Domenico Russo. Ma il fuoco di quella speranza non si è estinto, nemmeno negli anni seguenti, segnati da omicidi e stragi. E non si è spento nemmeno il ricordo del generale dalla Chiesa, un uomo che ha dedicato la sua vita al servizio “per rispondere a un proprio stimolo etico”, dice a In Terris Paolo Borrometi, vicedirettore di Agi che da anni vive sotto scorta per essere stato bersaglio di minacce mafiose.
A ravvivarne la fiamma, l’iniziativa del “Capitano Ultimo” Sergio De Caprio, l’uomo che nel 1993 ha arrestato il “capo dei capi” di Cosa nostra, Salvatore “Totò” Riina. Si tratta della social challenge #ioricordoilgenerale, organizzata con i volontari dell’associazione Volontari Capitano Ultimo, che consiste nell’inviare immagini e video delle strade e delle scuole a lui intitolate. Per Capitano Ultimo il generale Dalla Chiesa ha rappresentato un esempio e un riferimento, e In Terris lo ha intervistato sulla sua figura.
Chi era il generale
Piemontese nato nel 1920 a Saluzzo, in provincia di Cuneo, figlio di carabiniere, Romano, a 22 anni indossa la divisa dell’Arma – che porterà per un quarantennio. Dopo l’8 settembre ha conosciuto l’esperienza delle Resistenza poi, con la liberazione di Roma, è arrivato nella capitale d’Italia. Nel settembre 1949 è entrato nel Corpo forze repressione del banditismo, che operava in Sicilia, e lì la sua indagine principale ha riguardato la morte del dirigente socialista e sindacalista corleonese Placido Rizzotto. In seguito, dalla Chiesa ha operato con vari incarichi nel Nord Italia, tornando sull’isola a metà degli anni Sessanta, quando ha assunto il comando della Legione di Palermo. Anche qui, come già in precedenza, dalla Chiesa si è distinto per il suo approccio rigoroso, per l’attenzione all’efficienza e per la bravura dei suoi collaboratori, oltre anche per il suo ricorso a metodi d’indagine innovativi, accanto a quelli più tradizionali. Nel 1973 è a Torino, dove ottiene la promozione a generale, ed è impegnato nel contrasto all’eversione dell’estremismo di sinistra della Brigate rosse. Nel 1974 è nato, nel capoluogo piemontese, il Nucleo speciale di polizia giudiziaria, il cui lavoro d’indagine ha poi portato all’arresto dei vertici delle Br, Renato Curcio – evaso dal carcere di Casale Monferrato il 18 febbraio 1975 – e Alberto Franceschini. Il generale ha continuato l’attività di contrasto al terrorismo durante i cosiddetti “anni di piombo” e a fine del febbraio del 1980 viene arrestato il brigatista Patrizio Peci, diventato poi collaboratore di giustizia.
Il 16 dicembre del 1981 dalla Chiesa è nominato vice-comandante generale dell’Arma dei Carabinieri. Pochi mesi dopo, nella primavera del 1982, ha accettato di ricoprire l’incarico di Prefetto di Palermo, negli anni della cosiddetta “seconda guerra di mafia”, con la fazione dei corleonesi che diventerà egemone all’interno di Cosa nostra. Il suo secondo ritorno sull’isola, dove prima di lui erano caduti, uccisi, Boris Giuliano, Gaetano Costa, Piersanti Mattarella e Pio La Torre, durò poco più di cento giorni.
I passi illuminati
“Il generale dalla Chiesa ha rappresentato una speranza straordinaria. Con i suoi metodi e la sua azione aveva conseguito successi contro il terrorismo e i siciliani che speravano potessero essere risolutivi contro Cosa nostra e la mafia siciliana”, racconta a In Terris Borrometi, penna del giornalismo d’inchiesta da anni sotto scorta per le minacce mafiose. “Drammaticamente, purtroppo non fu così. Dalla Chiesa venne mandato a Palermo da prefetto ma sostanzialmente privato dei poteri di cui avrebbe avuto bisogno”. Borrometi ricorda una frase, cara al generale, che – spiega – “ha insito il significato della vita di servizio, del civil servant, che ha illuminato i passi di Dalla Chiesa”. La frase è: “Certe cose non si fanno per coraggio, si fanno solo per guardare più serenamente negli occhi i propri figli e i figli dei nostri figli”.
“Dovrebbe essere uno sprone per ognuno di noi a non rassegnarsi. A non scegliere la via più facile quando è sbagliata”, continua il giornalista, che nel suo ricordo non manca di nominare “la moglie Emanuela Setti Carraro e l’agente di scorta, che morì, Domenico Russo”. E’ importante ricordarli perché “credevano in quello che facevano, perché era un dovere farlo ma innanzitutto per rispondere a un proprio stimolo etico”.
L’intervista
In Terris ha intervistato “Capitano Ultimo” Sergio De Caprio, l’uomo che il 15 gennaio 1993 ha arrestato Salvatore Riina, dopo una latitanza decennale. Quarant’anni di servizio nell’Arma dei carabinieri tra Ros, Noe e Servizi, attualmente assessore all’Ambiente della Regione Calabria – le prossime elezioni regionali si terranno il 3 e il 4 ottobre – e fondatore dell’Associazione Volontari Capitano Ultimo, nella periferia est di Roma, che tra le varie attività di impegno solidale, gestisce una casa famiglia e una falconeria.
Come ricorderà il generale dalla Chiesa?
Insieme ai volontari dell’associazione Volontari Capitano Ultimo abbiamo chiesto di mostrare l’affetto per il nostro generale facendo una foto accanto a una strada o una scuola a lui dedicata e indicando il proprio nome e il luogo. Vogliamo far vedere che il generale vive ancora oggi, sulle strade e nelle scuole, insieme ai nostri figli e ai nostri fratelli, e farlo vivere ancora con più forza nel cuore degli italiani.
La sua è una figura viva?
Vive nell’amore dei carabinieri che lo portano nel cuore, che hanno interiorizzato il suo esempio e lo praticano sulla strada accanto ai più deboli. Ha vissuto da combattente, una rara figura di ufficiale generale che ha vissuto combattendo. Ha combattuto durante la Resistenza e ha portato quei valori e quelle tecniche di combattimento all’interno di una parte importante dell’Arma dei Carabinieri, facendoli diventare cultura.
In che modo si è poi tramandata quella cultura?
Io, insieme a un gruppo importante all’interno dell’Arma dei Carabinieri, ho interpretato le tecniche del generale in base alla mia sensibilità. Alle mie caratteristiche di uomo e di carabiniere. Alle opportunità che ci ha dato la tecnologia, utilizzando anche le caratteristiche personali e professionali dei carabinieri che avevo al mio fianco. L’abbiamo mantenuta viva, arricchendola con la tecnologia. E la prova che il nemico ha avuto paura di noi, del generale Dalla Chiesa e della sua tecnica, è che è stato trovato il manuale L’azione. Tecnica di lotta anticrimine scritto da me sul comodino nel covo di Bernardo Provenzano. Erano sottolineate le parti in cui io facevo riferimento al generale Carlo Alberto dalla Chiesa.
Quali sono stati i principali risultati conseguiti dal generale?
Le azioni appartengono alla Storia e alle sentenze, io da lui ho appreso che bisogna agire sulle cause del crimine e trasportare l’investigazione, l’osservazione sull’associazione per delinquere, più che sui singoli reati. Lui lo ha capito per primo e ha indirizzato i suoi reparti a seguire i criminali o i presunti criminali per stabilire i loro legami e scoprire i luoghi di frequentazione. Un sistematico meccanismo di osservazione nascosta per individuare le basi logistiche, i contatti principali e quelli secondari, i mezzi di cui avevano la disponibilità. E lo ha fatto con dei giovani ufficiali, portando una mentalità nuova all’interno dell’Arma dei Carabinieri.
Che impatto ha avuto la sua morte sull’opinione pubblica?
Nell’opinione pubblica c’era gente onesta che aveva nel cuore il generale dalla Chiesa, perché gli ha mostrato che c’era una capacità di lotta a tutela del bene comune. Quando lui è caduto hanno sentito il vuoto, lo stesso vuoto che abbiamo sentito tutti noi. La sua famiglia e i suoi figli, Nando, Simone e Rita, hanno pagato un prezzo altissimo a cui non è stata resta la giusta riconoscenza. Gli porgo le mie scuse personali e quelle dei carabinieri combattenti, gli offriamo tutto l’amore che abbiamo nel cuore.
Cos’è la strada, a cui faceva riferimento in precedenza?
Per un carabiniere è tutto, è la frontiera dove si combattono la violenza e l’abuso per far prevalere il diritto l’equità, la dignità, il rispetto.