Quello di inclusività è un concetto estremamente delicato. Da approcciare con la giusta coscienza oltre che con la buona volontà, mostrandosi innanzitutto consapevoli del fatto che, un percorso simile, richieda programmazione e conoscenza. Specie se il fulcro dell’inclusione fosse lo sport, di per sé basato sulla capacità fisica degli atleti. Eppure, campo di azione estremamente fertile per la creazione di esempi virtuosi, dove la cultura della disciplina sportiva riesce a bilanciare l’ottenimento o meno del risultato con la semplice soddisfazione di essere parte di una vera squadra. L’obiettivo posto dall’Associazione Baskin, fondata da Antonio Bodini, insignito dell’onorificenza di Ufficiale al Merito della Repubblica proprio per l’attività di inclusione portata avanti negli anni. Attraverso il baskin ma anche altre discipline, pensate per combinare, all’interno di un gruppo-squadra, atleti con disabilità e normodotati. Chiamati a disputare delle partite vere.
Presidente Bodini, cos’è il baskin e quali sono i suoi obiettivi?
“Il baskin è stata la prima disciplina sportiva realmente inclusiva. E, grazie a essa, l’utopia che si potessero fare cose in modo non paternalistico tra persone con disabilità e senza, è apparsa possibile. Già con la legge per l’integrazione scolastica degli alunni con disabilità, peraltro credo unica in Europa, si era stati preveggienti. Ma poi mancavano le buone prassi per fare in modo che fosse reale il fatto che le persone con disabilità e senza imparino le une dalle altre, condividendo lo stesso spazio e lo stesso tempo in modo avvincente per tutte e due. Il baskin fa vedere questo: si investe sulle persone con disabilità ma anche sulle altre e che tutte hanno la possibilità di andare a canestro, di raggiungere l’obiettivo. Soprattutto, tutti hanno potere d’azione, cosa che non accade quasi mai”.
Anche perché esisteva, ed esiste, un ordinamento legislativo che disciplina le attività sportive. Il baskin dove si inserisce?
“Sull’onda del baskin, ci siamo resi conto come non fosse previsto, nella legislazione italiana, il fatto che atleti con disabilità e normo dotate giocassero insieme. Le prime, infatti, venivano gestite sulla base di una legge ad hoc, mentre le seconde dal Coni. La nostra attività, dunque, non era figlia né dell’una situazione né dell’altra. Abbiamo sollevato questo problema a lungo finché il Comitato Italiano Paralimpico ha previsto nel suo ordinamento anche gli enti di promozione paralimpica, per promuovere lo sport inclusivo. Ed essendoci questa possibilità, abbiamo fondato l’Ente Italiano Sport Inclusivi, riconosciuto come ente di promozione paralimpica, e tutti gli sport promossi sono stati riconosciuti come paralimpici. Abbiamo quindi promosso le bocce, il calciobalilla e ora anche il calcio”.
Qual è stata la vera novità introdotta?
“Il baskin è la disciplina più affermata e che ha fatto la storia di questo modo di giocare. È stato un percorso duro perché, tutte le volte che si faceva un’attività simile, ci si basava sul buon cuore dei volontari, che si mettevano a disposizione facendo ‘finta’ di giocare per farlo fare anche a persone con disabilità. E questo accadeva un po’ in tutte le discipline, nelle quali agivano i cosiddetti ‘partner’. La novità del baskin è che è stato progettato per far sì che tutti ce la mettano tutta. Ed è stato dato potere d’azione anche alle persone con disabilità gravissime, in quanto viene riconosciuto che non partono dallo stesso piano”.
Potere d’azione significa anche possibilità di confrontarsi con l’errore…
“Un altro passo importante, forse in misura ancora maggiore: riconoscere il fatto che non ci si trovi sullo stesso piano di partenza, non significa concedere dei ‘regali’. Il tuo canestro dev’essere una sfida anche per te. Si fa in modo che vi sia questa ‘giustizia’, anche nell’attribuzione dei punti. Chiaramente, le distanze sono pensate in base alla disabilità ma non dev’essere sempre canestro. C’è un processo culturale per cui si riconosce che non si è partiti dallo stesso piano ma che si è fatto qualcosa di possibile, anche se non facile”.
Il punto di partenza, quindi, è la creazione di una cultura sportiva che poggi innanzitutto sulla consapevolezza di sé stessi?
“Certo. E anche degli altri. Capire che cosa si è, da che punto si parte e riconoscere che, magari, non è lo stesso punto degli altri. A scuola, una delle metodologie più utilizzate, è quella dell’autovalutazione del proprio ruolo. L’opportunità di giocare insieme è stata resa possibile poiché ci si divide in ruolo in base alle energie disponibili. E tali ruolo devono essere valutati attraverso dei sistemi specifici. A scuola, l’iniziale attribuzione avviene a seguito di un’autovalutazione. I ragazzi vanno a prendersi la maglia corrispondente. Il primo numero, quello delle decine, è relativo al ruolo. Quello dell’unità alla persona. In sostanza, si sceglie il ruolo in base alla valutazione di sé stessi. E la consapevolezza di sé è alla base, aiuta a capire chi sei e come posizionarti rispetto agli altri”.
Abbiamo parlato di scuola: un luogo dove il baskin può fare molto sul piano dell’inclusione e della coscienza degli studenti…
“Il baskin è nato a scuola. Ho cominciato io stesso nella palestra della scuola media ‘Virgilio’ di Cremona, assieme a un insegnante di educazione fisica, Fausto Cappellini, col quale condividevamo l’idea di creare una buona prassi con i principi di cui abbiamo parlato. Abbiamo quindi chiesto feedback ai ragazzi. Dopodiché, siamo andati dalle società sportive chiedendo se per caso volessero accettare dei gruppi di gioco. Così è stato e, adesso, sono 185 le associazioni sportive dilettantistiche affiliate all’Esi. Una possibilità per chi non può soddisfare la voglia di giocare tramite lo sport tradizionale”.
Cambia anche l’approccio alla “ginnastica” scolastica…
“Rispetto alla materia, l’educazione fisica, è stato fatto uno studio dall’Università del Foro Italico che ha coinvolto ragazzi di prima media, a inizio anno e a quattro mesi, tra classi con baskin e senza. E sono emerse cose importanti: chi aveva fatto il baskin, si rapportava in modo molto più naturale e accogliente con i compagni con disabilità grave. Chi giocava a baskin, poi, ha migliorato l’atteggiamento anche verso la materia. Faceva considerazioni estremamente positive, comunque migliorate nel tempo. Gli altri, invece, dall’entusiasmo iniziale manifestavano poi un peggioramento. La didattica inclusiva non fa bene solo alle persone con disabilità ma anche agli altri. E ci si può rendere conto di questo proprio guardando una partita di baskin”.
L’onorificenza ottenuta potrebbe contribuire a una diffusione ancora più capillare del baskin? O, addirittura, alla creazione di nuove iniziative virtuose?
“Spero davvero che contribuisca a far conoscere la bellezza di questa pratica sportiva. Roma, come tutte le grandi città, vedeva una possibilità ridotta, per barriere, fatica a spostarsi… Adesso, però, la pratica si sta diffondendo in periferia e arriverà presso altri istituti. L’onorificenza potrebbe contribuire. E se questo mi fa molto piacere, altrettanto mi rallegra il fatto che la Repubblica abbia scoperto come questo valore di inclusione siano da perseguire, sottolineare e riconoscere”.
E magari potrebbero costituire un incentivo a far meglio a livello infrastrutturale. Molti istituti, specie al Sud, sono indietro, soprattutto proprio per quel che riguarda le palestre…
“Sono stato in varie scuole del Sud e ho visto purtroppo situazioni come queste. Anche al Nord, tuttavia, siamo indietro in termini di barriere architettoniche, laddove gli allievi disabili non frequentino istituti differenziati. Si sta infatti scoprendo l’importanza della comunione di vita, che porta studenti con disabilità a condividere il percorso scolastico con i compagni normodotati”.