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Quale futuro per l’editoria italiana e internazionale. L’intervista di Interris.it a Gianni Riotta

L'editoria italiana e internazionale è sempre più preda della pubblicità e della disinformazione. Interris.it ne parla con il giornalista Gianni Riotta

Emergenza giornalismo in Italia (e nel mondo): la professione giornalistica non è più un campo di forze, come spiegava il sociologo francese Pier Bourdieu, perché oggi – a differenza degli anni ’70 – la pubblicità e il marketing sopravanzano le regole della giusta professione del giornalista, il giornalismo di qualità, e la fanno da padroni. Dall’azienda la pubblicità ha invaso direttamente le redazioni permeandole di un mix irriconoscibile di notizia critica e informazione a pagamento.

Cala la fiducia dei cittadini italiani nell’informazione giornalistica

Negli anni la fiducia dei cittadini italiani nell’informazione giornalistica è calata drasticamente, secondo i dati OCSE di maggio 2022. La disinformazione scientifica sulla pandemia (le fake news sono aumentate del 50% negli ultimi due anni), le notizie sulle elezioni nazionali trasmesse dai media tradizionali hanno lasciato una scia negativa di (s)fiducia; tanto che oggi il 35% degli intervistati si fida più dei social media rispetto a tv e carta stampata (o media digitali tradizionali). Altro dato allarmante: solo il 38% dei paesi OCSE è provvisto di sistemi di controllo contro la disinformazione. Il sistema di informazione tradizionale così come lo abbiamo conosciuto dai suoi esordi è in crisi totale. Difficile prevedere il futuro ma se non si prenderanno provvedimenti a livello internazionale, il giornalismo di qualità è a rischio. Di fronte a una generazione under 30 che preferisce le opinioni degli influencer attivi su TikTok e gli altri social media più “giovani” e soprattutto gratuiti. Rispetto ai media tradizionali schiavi della dipendenza pubblicitaria socio-economica che sono tutti rigorosamente a pagamento. Il brand awareness si costruisce sui social e le aziende lo sanno, a discapito di televisione e carta stampata.

L’intervista

“Quando sono arrivato in America in redazione c’erano 6 giornalisti professionisti e una sola persona che si occupava di pubblicità; ebbene oggi è il contrario”, spiega Gianni Riotta, editorialista de La Repubblica dal 2021, storica penna de La Stampa, che collabora con HuffPost e dirige la scuola di giornalismo della LUISS, intervistato da Interris.it a margine di un corso di formazione organizzato dall’Ordine dei giornalisti del Lazio sull’invasione della pubblicità nel giornalismo. Hanno partecipato al dibattito – tra gli altri – anche direttori ed ex direttori, come Bruno Manfellotto (Gazzetta di Mantova, Il Tirreno, L’Espresso), Francesco Piccinini (Fanpage, Deepinto), Luciano Tancredi (Il Tirreno), Fiorenza Sarzanini (Corriere della Sera), Stefano Feltri (Domani), Giuseppe De Bellis (Sky Tg24).

Quali sono i rischi della professione del giornalista oggi?

“La situazione attorno a noi sta cambiando moltissimo. C’è chi non sa vedere il cambiamento intorno a noi. Soprattutto il mondo dell’editoria e i giornalisti in generale non hanno compreso il cambiamento epocale che ci sta travolgendo. Gli editori italiani hanno sperato che l’antico status quo potesse perpetrarsi nel futuro e non hanno voluto, o saputo, cavalcare l’innovazione quando sarebbe stato il momento giusto. Devo dire con sofferenze umane straordinarie perché ad esempio i prepensionamenti – che sono stati necessari a un certo punto – hanno eliminato classi intere di professionisti. Senza guardare alla personalità e alla professionalità delle persone. Questo è stato uno sbaglio. Generazioni di giornalisti relativamente giovani avrebbero potuto avere accesso alle nuove tecnologie e imparare velocemente, senza perdere il lavoro”.

Quanto il social web mette in crisi oggi l’informazione sui media tradizionali?

“La situazione è complicata. Non ci dobbiamo fare grandi illusioni. Soprattutto noi giornalisti dobbiamo smettere di pensare di essere su una torre d’avorio. Se continuiamo così andiamo a sbattere di nuovo. Tutti gli indicatori ci dicono che i lettori hanno perso la fiducia nelle professioni della comunicazione. Proprio noi giornalisti dovremmo leggere sempre questi dati. Come quelli pubblicati dal Digital Media Observatory e IPSOS. I giornalisti professionisti sono sempre stati particolarmente in minoranza nella fiducia della gente. Anche rispetto alla politica e alla scienza. Questa fiducia va riconquistata soprattutto dai giovani che non guardano i canali main stream, non guardano la tv e si nutrono di informazione sui new media. Io per primo sono stato un entusiasta di internet quando non era di moda. E so che non sempre le fonti online sono affidabili”.

Che cosa vuol dire un modello giornalistico di qualità?

“Parliamo di tutte le testate blasonate a livello internazionale: dalle nostre (La Repubblica, Il Corriere il Sole 24 Ore) al New York times, Le monde ecc. Su questi giornali se voglio leggere una notizia di qualità o partecipare a un podcast devo pagare. Tutta questa comunicazione si basa sul sistema degli abbonamenti. E quest’inverno con il caro bollette dovuto alla guerra tante famiglie, tanti ragazzi dovranno fare scegliere dove investire, su cosa investire. Le informazioni non sono beni di prima necessità, queste persone non faranno nuovi abbonamenti o non potranno rinnovarli. Le notizie si cercano gratuitamente sul web. Mentre il ceto abbonato è abbastanza anziano e abbiente, esclude di conseguenza milioni di italiani. Anche negli Stati Uniti c’è un deserto giornalistico. Tutte le testate locali sono sparite. La gente non sa più cosa succede nella propria comunità e va avanti alla cieca. Questo fenomeno ha portato a scelte socio-politiche populiste. Quando sono arrivato in America c’erano 6 giornalisti e una persona sola che rappresentava le aziende. Oggi ci sono 6 persone che rappresentano l’azienda e 1 solo giornalista professionista. Mi chiedo che cosa faranno i nostri giovani”.

C’è una ricetta che possa togliere da questa empasse il giornalismo del futuro?

“Gli editori (e i giornalisti) perderanno sempre nel mercato di oggi. Non c’è partita. Le aziende hanno più mezzi e più cultura dei social media. Noi dobbiamo accettare com’è la situazione. Le testate televisive era amatissime e le aziende non erano ben viste. Oggi gli under 35 in tutto il mondo si identificano nei brand della moda dello spettacolo e dei beni di consumo. Li chiamiamo influencer (persone note e stimate che operano nei social media) perché i giovani si fidano di loro. Come facciamo a ricostruire la fiducia nel giornalismo? Devo capire che cosa vogliono i giovani, studiare i brand. Come la Coca Cola nel recente passato oggi altre grandi compagnie della moda si attivano per i diritti umani e civili, spendendo soldi veri. Mentre le aziende italiane ancora storcono il naso. Le grandi società internazionali, le multinazionali lo fanno perché capiscono che così hanno la fiducia della parte avanzata della società. E quando un articolo è influenzato dalla pubblicità lo dobbiamo dire, quando recensiamo una mostra, non come critici, lo dobbiamo dichiarare. Questo deve essere chiaro ma è il punto di partenza. Negli anni 60 avevi risolto il problema dichiarando come e quando facevi pubblicità sul giornale. Oggi dobbiamo uscire dalla nicchia. Il fenomeno in inglese si chiama ‘nichification’. Il giornalismo è di nicchia”.

Un ruolo centrale dell’Europa unita può aiutare le testate nazionali?

“Faccio un esempio: prima ‘Il Messaggero’ lo leggevano tutti, dai dirigenti ai ceti più bassi. Oggi quello che leggono i ricchi e quello che leggono i poveri è molto diverso. Questo porta la pubblicità ad avere grande attenzione sono per le classi superiori. Noi dobbiamo portare il giornalismo di qualità nei quartieri popolari. I grandi inviati ci sono ancora ma i giovani non li possono leggere perché le notizie non escono gratis. L’Europa dovrebbe fare un business plan che permetta questo cambiamento. Facebook, Twitter e Google hanno drenato le pubblicità dalle tv e dalla carta stampata. Basti vedere i dati dell’Osservatorio Italiano. Facebook non ha eliminato un contributo di disinformazione dalle sue piattaforme. Twitter non ha un italiano che sappia leggere quello che scriviamo senza tradurlo.  Ha licenziato i dipendenti italiani e se fai segnalazioni loro le leggono tramite il Google translate. Dobbiamo fare pressione sull’Unione Europea che dia regole alle piattaforme. La stessa Unione Europea che si impegna e investe sulla difesa dei cavalli e dell’agricoltura si impegni a difendere l’informazione di qualità in Europa. Non bisogna però dare i soldi agli editori, ma fare formazione ai giornalisti. E’ essenziale rendere gli over 50 e 60 autonomi sul web, dare strumenti tecnologici e aiuto a chi lancia nuove informazioni editoriali senza ricatto delle aziende e raggiungere chi è fuori dal giornalismo professionista”.

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