Dieci anni. Probabilmente poco per tirare le somme, ancor meno per cercare di definire gli effetti. Forse più un’occasione per ragionare, dare forma e spazio alle cause e cercare di capire la direzione presa dagli eventi. Tenendo naturalmente in conto tutte quelle variabili che, pur in un lasso di tempo così breve, possono subentrare. E sconvolgere, modificare, arrestare o accelerare processi storici già in atto. In questo senso vanno lette le Primavere arabe che, all’inizio del secondo decennio del Duemila hanno stravolto l’assetto dei Paesi musulmani. In Medio Oriente e Nord Africa, un’ondata di cambiamento che le giovani generazioni avevano iniziato a pretendere. E che finì per sconvolgere gli assetti fin lì marmorizzati da governi pluridecennali e regimi finiti per essere sovvertiti.
La Rivoluzione dei Gelsomini, in Tunisia, non è stato che l’inizio. Poi Siria, Yemen, Egitto, Libia, Bahrain, Algeria… Chi ha ottenuto qualcosa, chi nulla. Di sicuro, una fase storica che non ha ancora detto tutto quello che aveva da dire. E se c’è chi raccoglie il testimone della protesta, aspettando di assegnare al processo di cambiamento il suo giusto posto nella storia, c’è anche chi tenta di inquadrare il tutto. O perlomeno, i primi dieci anni della storia. Cercando di capire se la fine dei grandi regimi (su tutti quello di Saddam Hussein in Iraq e quello di Muhammar Gheddafi in Libia) abbia davvero innescato un riverbero democratico o se il tutto si sia risolto in una frammentazione da guerra per procura. Per parlare di eredità è decisamente troppo presto. Alcuni Paesi, come l’Algeria o il Libano, le piazze se le sono prese fino a ieri l’altro. Ma, forse, è un buon momento per chiarire qualche concetto. Primo fra tutti, la continuità della mobilitazione. Sospesa ma non fermata. Interris.it ne ha parlato con Silvia Colombo, responsabile di ricerca del programma Mediterraneo e Medioriente presso lo Iai.
Dott.ssa Colombo, la stagione delle Primavere arabe ha vissuto forse un periodo ancora troppo breve per inquadrarlo a fondo. Ma, dopo 10 anni, è possibile tracciare un primo quadro del nuovo assetto?
“E’ un momento più per noi analisti che per 10 anni abbiamo seguito l’evoluzione del post-primavere e dei processi di trasformazione innescati sia in modo virtuoso, con il risveglio di una partecipazione politica dal basso, sia in termini negativi. Oggi più che mai c’è una situazione di conflittualità che permea la regione a causa di evoluzioni generate da quelle situazioni. Un momento di valutazione e di autovalutazione sulla nostra capacità critica di interpretare questi aspetti. Se guardiamo al mondo arabo, ci sono ben poche celebrazioni. Questo deve far riflettere, non perché tutto è stato tempo perso ma perché credo il nostro modo di guardare questi eventi abbia enfatizzato molto la portata dell’entusiasmo iniziale ma anche le problematiche. Diverso è vivere queste situazioni sul campo”.
Poste le diverse dinamiche territoriali, a che punto è il processo di cambiamento?
“Da una parte per i cittadini di questi Paesi c’è una forte consapevolezza che qualcosa è cambiato. Anche la stagione del 2011 è stata rappresentativa fino a un certo punto. E’ più nell’arco dei dieci anni che abbiamo visto come questi semi sono germogliati. La dinamica temporale è stata molto più lunga. Anche il modo in cui abbiamo interpretato e parlato di questi fenomeni ha fuorviato le risposte della politica. Quel periodo deve essere messo in un contesto più ampio e più critico, che tenga conto dei processi precedenti e di come queste popolazioni stiano vivendo questo frangente. Sicuramente l’occasione dell’anniversario pone alcuni espetti di criticità: le proteste sono continuate ma in modi diversi”.
In alcuni contesti più che in altri?
“Il caso algerino, ma anche in Libano, che aveva avuto vari episodi a partire dal 2008, poi nel 2011, nel 2015 e fino all’anno scorso. Questa continuità si è intersecata con questioni più ampie come il Covid-19, che ha frenato moltissimo le proteste dal basso per ovvi motivi organizzativi. Ad esempio in Algeria, che era ancora in fase di mobilitazione popolare. Secondo alcuni lo stesso vale per il Libano, al di là dell’evento dell’esplosione al porto di Beirut. Sicuramente l’impatto della pandemia, soprattutto sul piano socio-economico, ha consentito ad alcuni governi della regione di sfruttarli per allontanare da sé l’ombra delle proteste dal basso. In Egitto, anche dalle autorità religiose, è stato utilizzato nelle necessità del quietismo per proteggere il regime di al-Sisi, tutto fuorché stabile”.
Quello del virus rischia di essere un impatto a lungo termine. Ma questo concetto vale anche per situazioni di forte instabilità socio-economica, peraltro già innescata da un vento rivoluzionario ancora giovane?
“Alcuni dicono che questa è solo una parentesi e che appena le condizioni lo permetteranno torneremo a vedere una continuazione. Secondo me tutte queste esperienze stiano trasformando le proteste. Non possiamo frammentare. E’ tutto un processo continuativo, articolato e contraddittorio. Il Covid-19 avrà un impatto determinante e non è detto che tutto riprenderà da dove si era interrotto. Prima di tutto perché la mobilitazione non si è mai fermata. Nuovi tentativi di dare una risposta ai bisogni, anche molto basilari, come ad esempio sanità e scuola, nuove forme di protesta sono state trovate. Magari alcuni avranno esaurito la loro esperienza con una trasformazione ma, d’altro canto, i problemi resteranno e potrebbero esserci altre forme di mobilitazione, laddove l’impatto della crisi socio-economica sarà stato più forte”.
Ha senso collegare le Primavere arabe alle recrudescenze della lotta jihadista che, dopo pochi anni, avrebbe portato gravi conseguenze anche in Europa?
“Leggere le forme di radicalizzazione violenta come un risultato delle primavere arabe è un po’ fuorviante. Si tratta di processi molto più lunghi e profondi. un processo di radicalizzazione può sì avvenire nell’arco di pochi mesi, ma se guardiamo a contesti più ampi tutto affonda le proprie radici in un periodo di gestazione più lungo. Non si può negare che tutti i processi che si sono messi in moto, alcuni di destrutturazione attraverso percorsi violenti in Libia, Yemen e Siria, ma anche il venire meno per alcuni a un controllo totale del proprio territorio, sicuramente ha portato alcune parti della popolazione, minoritaria, anche per il fallimento dell’integrazione in Europa, a giocare un ruolo nella radicalizzazione. Il terrorismo di matrice jihadista visto in questo decennio, si è incarnato essenzialmente nel sedicente Stato islamico, un tentativo all’interno della regione di strutturare l’ordine statuario invocando l’idea di uno Stato. Quello che abbiamo visto in Europa è stato il frutto di processi molto più lunghi. Vanno anche considerati anche i ruoli degli attori internazionali in questi teatri di conflitto dopo i primi anni di ‘gestazione’. E’ importante inserire questo elemento nell’analisi di questo decennio ma senza tirare conclusioni su cause ed effetti che non sono così connessi”.
In alcuni Paesi i primi effetti si sono visti dopo diversi anni, in altri si è continuato a scendere in piazza finché si è potuto… Questo clima di confusione, dovuto sia alla battuta d’arresto che alle difficoltà di assestare le varie tensioni intestine, ha modificato anche il ruolo degli attori internazionali?
“Se pensiamo a quello che è successo in processi simili in Europa nei secoli passati, è esattamente quello che è accaduto qui. Anche in altre zone del mondo si sono innescati processi di cambiamento, come dopo la disgregazione dell’Urss o nei Paesi dell’Est Europa. Sicuramente c’è più caos, una destrutturazione dell’ordine regionale, che è l’impatto fortissimo che queste trasformazioni hanno avuto su una visione del Medio Oriente fino al 2011 in cui c’era la dominazione degli Stati Uniti. C’è mancanza di ordine e coerenza ma credo sia un risultato naturale di questi processi. Più interessante è capire se le dinamiche interne stiano andando nella giusta direzione. E qui vediamo risultati molto diversificati. Oppure capire come queste mobilitazioni si riusciranno a inquadrare in un contesto che lascia molto poco spazio alla trasformazione politicai n senso democratico. Questo vuol dire adattare le nostre politiche ma prima chiarendo quali sono gli obiettivi da raggiungere. Riconoscere con umiltà che abbiamo poco margine per influenzare le dinamiche regionali e chiarire a noi stessi l’obiettivo di fondo. E’ inutile che l’Unione europea si spenda con dichiarazioni sulla stabilità e sui diritti e poi i Paesi membri continuino a vendere armi. Arrivare quindi a una chiarezza che finora non si è manifestata”.