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Un “pranzo d’amore”: nelle carceri, la prossimità si fa dono

Prison Fellowship Italia "Pranzo d'amore"

Foto © InTerris

Dieci anni e non sentirne il peso. O meglio, sentirlo in modo relativo. Quel peso sopportabile, positivo, quello sperimentato da chi fa la cosa giusta e per i giusti motivi. Il progetto dell’associazione Prison Fellowship Italia raggiunge i due lustri dell’iniziativa “L’ALTra cucina… Per un pranzo d’amore”, durante la quale chef stellati e ospiti illustri sperimentano, per un giorno e a ridosso delle festività natalizie, la vocazione del servizio che si fa dono. Professionalità e semplice umanità, tra sala e fornelli, nel contesto “d’eccezione” degli istituti penitenziari italiani, trasformati per l’occasione in un crocevia di esperienze e di scambio reciproco. Personalità del mondo dello spettacolo, della musica, dell’arte (e delle arti) pronte a mettersi letteralmente al servizio dei detenuti, in un quadro di “bene che sprigiona il bene”, contribuendo a lenire le ferite dell’anima, attraverso una condivisione che va ben oltre la divisione del companatico.

I dieci anni del “Pranzo d’amore”

Certo, tutto parte da lì. Perché, come ricordato dalla presidente di Prison Fellowship Italia, Marcella Reni, “a tavola si invitano gli amici”. E tra amici non c’è solo serenità ma un percorso condiviso, che inizia da lontano e che si snoda attraverso le linee guida della prossimità e della solidarietà reciproca. Ecco, allora, che persino la conferenza stampa di presentazione dell’edizione numero dieci de “L’ALTra cucina”, presso la Sala Pia dell’Università Lumsa, diventa un momento di riflessione sulla base di esperienze dirette, raccolte lungo un percorso virtuoso iniziato negli Stati Uniti, nel 1976, e sugellato dal mandato di san Giovanni Paolo II che, negli anni Novanta, invitò i promotori americani del Progetto Sicomoro, rivolto ai detenuti, a bussare alle porte del Rinnovamento nello Spirito Santo. Perché “solo dei pazzi” avrebbero potuto sperare di essere portatori di guarigione spirituale in un contesto come quello delle carceri. Quella “follia”, però, era quella giusta: “Volevamo fare qualcosa che non fosse solo beneficenza, perché nessuno si salva senza l’altro. E allora, dieci anni fa, abbiamo pensato a questa esperienza, nella quale i ‘primi’ servono gli ultimi affinché si sentano ‘primi'”.

Foto © InTerris

La dignità dell’uomo

Il pranzo d’amore non può essere un pranzo qualunque. Ai fornelli, come ogni anno, ci saranno chef stellati, loro stessi promotori di un’iniziativa che, assieme al cibo, porta ai detenuti convivialità e rinfrancamento spirituale. Quello che serve affinché la colpa possa lasciare il posto a un percorso concreto di redenzione. Perché “il reato resta reato ma resta anche la dignità dell’uomo“. Del resto, come ricordato dal presidente nazionale del RnS, Giuseppe Contaldo, “‘L’ALTra cucina’ è un dono, di cui il Rinnovamento si fa voce. Dentro la parola ‘altra’ è l’amore a fare da sfondo. C’è una simbiosi tra l’esperienza dello Spirito e le professionalità che si mettono a servizio. Questo atteggiamento di prossimità si affianca alla fede, che ci conduce a una delle periferie esistenziali dell’uomo”.

Investire nel recupero

Senza dimenticare che la realtà della detenzione richiede uno sguardo più ampio del dono offerto in un singolo giorno. Come ricordato dal senatore Andrea Ostellari, sottosegretario al Ministero di Giustizia, “bisogna concentrarsi non solo sulla funzione ma anche sulla persona. E questo significa investire su delle persone che devono essere accompagnate e recuperate. La maggior parte di loro, scontata la pena, cambia definitivamente vita. Questo significa che vale la pena di insistere. Altrimenti, se ci si affidasse a meri provvedimenti, questi rischierebbero di non essere risolutivi”.

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Il culmine di un percorso

Ben ventinove istituti penitenziari, da Nord a Sud, fino alle Isole, hanno aderito all’iniziativa per il 2023 (con più di 4 mila detenuti coinvolti). Un numero importante, che contribuisce a dar rilevanza all’appuntamento del 20 dicembre e, al contempo, a tenere accesi i riflettori sul tema delle carceri, bisognoso più che mai di progetti che coinvolgano tanto l’adeguamento strutturale degli istituti quanto il recupero e il reinserimento dei detenuti. In fondo, l’obiettivo è portare a compimento percorsi che iniziano da lontano, scavando a fondo nel passato dei detenuti affinché cresca in loro la consapevolezza di una redenzione possibile.

Prossimità e redenzione

“È un percorso lungo – ha spiegato a Interris.it Marcella Reni, presidente PfIt -. Se si tratta di reati comuni, come i piccoli furti, è più difficile, perché per loro non è considerata una rottura del patto sociale ma una necessità. Per quel che riguarda detenuti ergastolani, invece, ci vuole più tempo ma, una volta raggiunti, non tornano più indietro“. Una strada perlopiù in salita e che coinvolge numerose professionalità: “Il lavoro che fanno dentro gli educatori è prezioso ma è troppo poca la prestazione rispetto al numero dei detenuti. Ricordo un episodio con un sex offender recidivo che, al settimo incontro, iniziò a piangere e a desiderare di raccontarsi dopo aver incontrato una vittima di stupro. E, a distanza di tempo, l’educatrice ci chiese come avevamo fatto perché, nonostante i ripetuti tentativi per sette anni, non era riuscita a raggiungerlo”.

Quello nelle carceri è un servizio attivo. E che richiede non solo tempo ma anche dono di sé: “Bisogna stare molto insieme, devono credere in te e che non sei lì per una spilla sul petto. Questi pranzi ci danno la visibilità necessaria affinché, durante l’anno, si aprano le porte ad altri progetti. Questa iniziativa serve ai detenuti, perché è il grimaldello per farci entrare. Tutto torna ma è molto faticoso”. Anche se, come sempre, la buona semina è preludio di buon raccolto.

Damiano Mattana: