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Porta Santa a Rebibbia: l’abbraccio di Dio ai detenuti

A sinistra: Giorgio Pieri. A destra: Foto di Hasan Almasi su Unsplash

Il Giubileo, biblicamente, è un anno di liberazione e giustizia, come si legge nel Levitico al capitolo 25. Poter attraversare la Porta Santa, che simboleggia Cristo, in un carcere significa che lì dentro abita la grazia di Dio. Gesù nel Vangelo dice: ‘ero carcerato e siete venuti a visitarmi’. Quello che si terrà a Rebibbia il prossimo 26 dicembre è un momento molto importante, un’occasione di conversione per tutti”. A parlare a Interris.it è Giorgio Pieri, membro della Comunità Papa Giovanni XXIII, fondata dal Servo di Dio don Oreste Benzi, e Responsabile del Progetto Cec – Comunità educante con i carcerati.

Il Giubileo delle carceri

Il 26 dicembre, festa di Santo Stefano, Papa Francesco aprirà la Porta Santa nel carcere di Rebibbia. Il Pontefice, che aveva visitato il carcere romano nove anni fa per un Giovedì Santo, ora ha scelto di entrarci come un “pellegrino di speranza”. Un gesto che lo stesso Pontefice aveva annunciato nella Bolla di indizione del Giubileo “Spes non confundit” dove, al punto 10, chiede condizioni dignitose per tutti coloro che sono privi della libertà” e che “sperimentano ogni giorno, oltre alla durezza della reclusione, il vuoto affettivo, le restrizioni imposte e, in non pochi casi, la mancanza di rispetto”, ha scritto: “Per offrire ai detenuti un segno concreto di vicinanza, io stesso desidero aprire una Porta Santa in un carcere, perché sia per loro un simbolo che invita a guardare all’avvenire con speranza e con rinnovato impegno di vita”.

L’intervista a Giorgio Pieri

Qual è il significato di questo Giubileo per i detenuti?

“Nell’Anno Santo, in antichità, si azzeravano tutti i debiti, quindi c’è chi potrebbe sperare in un indulto o in un’amnistia. Il significato più profondo è ricevere la grazie di Dio che ti aiuta a fare pace con te stesso e con gli altri. Tutte le persone che sono in carcere hanno ferito sia loro stesse sia la società. L’apertura della Porta Santa di Rebibbia è un segno di speranza sia per i detenuti sia per chi si reca a visitarli”.

Di cosa ha realmente bisogno un detenuto? 

“Dio ci chiede di costruire luoghi di speranza. La Comunità Papa Giovanni XXIII propone lo sviluppo di comunità educanti su tutto il territorio nazionale. C’è una legge per l’apertura di un albo di comunità, siamo in attesa del decreto attuativo. I detenuti necessitano di qualcuno che li aiuti ad avere speranza, che li prenda per mano e li accompagni in un percorso che parta dalla prigionia del male fino al bene. Questo passaggio può avvenire attraverso le comunità educanti”.

Come aiutare un detenuto in un percorso così delicato?

“E’ nelle ferite del cuore dell’uomo che, spesso, cresce il male. Dobbiamo riconoscere la sua esistenza e capire che è una catena da spezzare. Quando siamo malati, andiamo dal medico e, se necessario negli ospedali. Ecco, io credo le comunità educanti siano degli ospedali da campo e la sala operatoria sia la cappellina. Noi operatori siamo gli infermieri, ma il primario è Dio. Siamo chiamati ad accompagnare le persone a questo incontro con Cristo”.

Come definiresti le comunità educanti?

“La comunità educante è come un deserto, un luogo di passaggio dove i recuperandi hanno la possibilità di incotrare Dio, di mettersi in ascolto di se stessi, un luogo dove si ha la possibilità di costruire un gruppo e, così, camminare insieme verso la salvezza. Nel 2015, in occasione del Giubileo, ho avuto la possibilità di incontrare Papa Francesco e gli ho detto che questi sono luoghi di misericordia, dove è possibile condividere le miserie e portarle tutte insieme. Le comunità educanti sono luoghi di salvezza, dove i recuperando espiano pene non solo alternative ma educative. Si tratta ti luoghi chiusi per tutelare sia il reo sia le vittime. La società deve conoscerli e compredenre che si tratta di strutture come ospedali da campo dove è possibile curare quel male che porta una persona a compiere un delitto”.

Manuela Petrini: