Le armi tacciono nel Sud del Caucaso. E’ in atto una de-escalation tra Armenia e Azerbaijan, dopo giorni di scontri avvenuti – come nel 2020 – nella regione del Nagorno Karabakh, zona contesa dalle due parti nonostante sia formalmente in territorio azero, vicino al confine armeno.
Gli scontri armati tra i due eserciti hanno causato la morte di decine di soldati – 71 soldati azeri, secondo il ministero della Difesa di Baku; e 105 militari armeni, secondo la controparte di Yerevan – e un rimpallo di responsabilità tra i due Governi.
Lo scambio di accuse al Consiglio di Sicurezza Onu
Armenia e Azerbaigian si sono accusate a vicenda anche davanti al Consiglio di Sicurezza Onu celebrato lo scorso 15 settembre. “Questa aggressione è la risposta dell’Azerbaigian agli sforzi di mediazione della comunità internazionale. Questi atti di aggressione evidenziano come Baku abbia scelto una soluzione militare al conflitto”, ha denunciato l’ambasciatore armeno Mher Margaryan, al Palazzo di Vetro. “Stiamo ricevendo informazioni che il fragile cessate il fuoco è minacciato”, ha aggiunto, accusando l’Azerbaigian di “preparare una nuova offensiva militare”.
Da parte sua, il delegato dell’Azerbaigian, Yashar Teymuroglu Aliyev, ha respinto le accuse dell’Armenia, affermando che al contrario il Paese vuole “silurare il fragile processo di normalizzazione postbellico. Queste accuse basate su invenzioni, distorsioni e inganni – ha proseguito – mostrano che l’Armenia è ben lontana dal rispettare i suoi obblighi internazionali”.
Il segretario generale aggiunto ONU responsabile per l’Europa e l’Asia centrale, Miroslav Jenca, ha detto: “Le Nazioni Unite non sono in grado di verificare o confermare queste informazioni. Gli eventi di questa settimana ricordano chiaramente che le tensioni tra Armenia e Azerbaigian hanno il potenziale per destabilizzare la regione”.
La guerra dei 44 giorni
Il riferimento è alla recente “guerra dei 44 giorni” (27 settembre – 9 novembre 2020) che si risolse con una vittoria dell’Azerbaigian e conseguente trattato di pace, sotto l’egida della Russia.
La guerra del Nagorno Karabakh del 2020 (o “seconda guerra nel Nagorno-Karabakh” dopo quella del 1992) è stato un conflitto armato tra le forze azere e quelle armene per il controllo della regione caucasica del Nagorno Karabakh. Le prime attività belliche ebbero inizio lungo la linea di contatto dell’Artsakh.
In risposta agli attacchi, l’autoproclamata Repubblica dell’Artsakh e l’Armenia introdussero la legge marziale e la mobilitazione generale, mentre l’Azerbaigian solamente la legge marziale e il coprifuoco.
Dopo quarantaquattro giorni di aspri combattimenti, la sera del 9 novembre i rappresentanti dell’Armenia e dell’Azerbaigian, tramite la mediazione del presidente russo Vladimir Putin, firmarono un cessate il fuoco per consentire lo scambio di prigionieri e quello dei caduti, valido dalle 00:00 ora di Mosca (le 01:00 ore locali) del 10 novembre 2020, quarantacinquesimo giorno di guerra.
Ora, dopo quasi due anni di tregua, sono riprese le ostilità poi seguite dallo scambio di accuse tra i due Stati sulle responsabilità degli attacchi.
Per comprendere meglio la situazione di quell’area del Caucaso, potenzialmente molto pericolosa in uno scenario globale già destabilizzato dall’invasione russa in Ucraina, InTerris.it ha intervistato lo storico Daniel Pommier Vincelli, già ricercatore a tempo determinato, abilitato professore associato in Storia delle Relazioni Internazionali e dei Paesi Extraeuropei presso l’Università La Sapienza di Roma. Pommier è inoltre autore del saggio “Storia internazionale dell’Azerbaigian. L’incontro con l’Occidente (1918-1920)” per le edizioni Carocci (2019).
L’intervista allo storico Daniel Pommier Vincelli
Dottore, nel suo testo “Storia internazionale dell’Azerbaigian” scrive: “Nel Caucaso meridionale viene fondata, nel 1918, la Repubblica Democratica dell’Azerbaigian, la prima repubblica parlamentare nella storia del mondo islamico”.
Qual è la specificità e l’originalità oggi di questa Repubblica?
“Con la dissoluzione dell’Impero zarista, la rivoluzione, l’uscita dalla prima guerra mondiale e la guerra civile in Russia, le nazionalità non russe hanno l’opportunità – nel 1917-18 – di affrancarsi dai vecchi dominatori. Dal Baltico, all’Ucraina al Caucaso si affermano leadership nazionali di orientamento progressista e democratico che fondano degli Stati-nazione sul modello occidentale, attirati dall’idea di autodeterminazione nazionale ispirata dal presidente Wilson e dalle potenze occidentali. L’Azerbaigian, insieme ad Armenia e Georgia, è una delle tre repubbliche che nascono nel Caucaso meridionale. La sua eccezionalità è nel fatto che per la prima volta nella storia dei Paesi a maggioranza islamica si costituisce un governo repubblicano e parlamentare. Ovviamente a cento anni di distanza appare complicato dire cosa resti e cosa sia cambiato: come se ci chiedessimo cosa resta dell’Italia della marcia su Roma. Credo che l’attuale Azerbaigian, che ha riconquistato l’indipendenza nel 1991, abbia ereditato il carattere laico e il rifiuto di un’identità etno-nazionalista che segnò quell’esperienza della repubblica democratica tra 1918 e 1920”.
Perché la zona del Nagorno Karabakh è contesa tra due Nazioni?
“Stiamo parlando di un’area dove storicamente non sono esistiti stati nazione sul modello occidentale. Essi sono un’invenzione recente, del XX secolo. Territori come il Karabakh (Nagorno ne è soltanto una parte ed è una denominazione di era sovietica) avevano una natura istituzionale profondamente locale, con piccoli principati semifeudali, e un’appartenenza a imperi multinazionali come quello russo o persiano. In tutto questo immaginiamo una compresenza etnica di etnie differenti: armeni, azerbaigiani, curdi etc. Quando si forma l’Unione Sovietica quel territorio, vista la forte presenza armena (maggioritaria ma non totalitaria) divenne una sorta di regione autonoma dentro l’Azerbaigian sovietico. D’altronde gli azerbaigiani vi avevano abitato per secoli e lo stesso toponimo Karabakh è una crasi di una parole azera e di una persiana. Inoltre il territorio si trova totalmente dentro i confini azerbaigiani. Veniamo alla crisi. Immaginate che il Sud Tirolo con la sua maggioranza tedesca si trovi molto più a sud, non ai confini con l’Austria ma totalmente dentro la regione Veneto, diciamo vicino Vicenza. Ipotizziamo che esso si ribelli all’Italia, cacci la popolazione italiana da Merano e Bolzano e con l’aiuto delle truppe austriache (che ne frattempo occupano metà del Veneto) si dichiari indipendente. Tutta la popolazione italiana del Trentino e del Veneto occupato viene espulsa. Questo è ciò che è successo tra Armenia e Azerbaigian tra il 1992 e il 2020 col risultato di quasi 30 anni di occupazione illegale, 1 milioni di rifugiati, un territorio che si è virtualmente isolato dal mondo”.
Qual è la sua importanza strategica o economica? Oppure le motivazioni alla base dell’annosa contesa sono “altre”?
“Non esiste una grande ragione strategica o economica per l’invasione del Karabakh, ma soltanto il richiamo nazionalistico partito dall’Armenia alla fine degli anni Ottanta. Il conflitto ha anzi creato danno all’Armenia che dal momento della guerra del 1993-94 ha interrotto i rapporti diplomatici con la Turchia con disastrose conseguenze economiche. Questa situazione è stata in stallo per 26 anni con un ruolo di mediazione della comunità internazionale assolutamente insufficiente; questo finché l’Azerbaigian ha ripreso l’iniziativa militare e liberato i propri territori poiché – va ricordato – anche altri sette distretti azerbaigiani erano stati occupati dalle forze armene, proprio per garantire la continuità territoriale tra Armenia e Karabakh. La guerra dei 44 giorni (27 settembre – 9 novembre) si è risolta in una netta vittoria di Baku”.
Quali sono i punti dell’accordo della tregua siglata tra le parti il 9 novembre 2020?
“I punti dell’accordo sono semplici: i sette distretti ritornano all’Azerbaigian, viene garantito il ritorno dei profughi, il vecchio Nagorno Karabakh sovietico viene sostanzialmente ripartito tra Azerbaigian e armeni locali e una forza di pace russa viene interposta tra i due schieramenti. Si stabiliscono dei progetti infrastrutturali per favorire la connettività tra Azerbaigian, Armenia e Turchia. Ciò che rimane fuori e che è oggetto degli attuali colloqui sono: il trattato di pace e lo status finale del territorio nonché la definitiva limitazione confinaria tra le due nazioni. L’accordo ha durata quinquennale e pochi giorni fa per la prima volta dal 2020 sono ripresi scontri massicci tra i due Paesi, per fortuna fermati rapidamente da un cessate il fuoco. L’aspetto più paradossale è che gli scontri sono ripresi pochi giorni dopo l’incontro tra i leader dei due Paesi tenutosi a Bruxelles il 31 agosto 2022. E da quell’incontro sembrava che gli accordi di pace fossero a portata di mano”.
Quali rapporti lega la Russia all’Armenia e all’Azerbaigian?
“La Russia è fondamentale. Storicamente è la potenza colonizzatrice, essendo essa giunta nell’area alla fine del XVIII secolo come potenza imperiale dominante, condizionando il processo di modernizzazione del Caucaso. Dopo la breve stagione di indipendenza nel 1920 la Russia torna in Caucaso sotto la veste sovietica incorporando elementi antichi e definendone di nuovi. Per 70 anni Russia, Armenia e Azerbaigian sono stati parti dello stesso Paese condividendo lingua, cultura, istituzioni, stili di vita. Prima di ogni considerazione geopolitica dobbiamo tenere conto di quanto sia importante il legame con la Russia nelle vite di tutti i giorni degli abitanti del Caucaso. Moltissimi parlano ancora russo anche in famiglia, tanti ricordano positivamente la società e le istituzioni sovietiche, le relazioni commerciali, culturali, migratorie con la Russia sono profondissime. Dal punto di vista politico la Russia è stata, almeno fino a queste ultime settimane, una potenza determinante per gli equilibri nell’area. A mio parere per oltre ventisei anni ha impedito una soluzione del conflitto, determinandone il ‘congelamento’ e soltanto quando ha garantito una stretta neutralità che le cose si sono mosse, con la guerra dei 44 giorni e l’accordo tripartito mediato appunto da essa. Poi è partito un nuovo ruolo di peacekeeping a garanzia degli impegni dell’accordo. Oggi siamo in una fase magmatica. La Russia è impegnata nella guerra in Ucraina, isolata internazionalmente e danneggiata dalle sanzioni. Da un lato sembra volersi ridimensionare, dall’altro l’Armenia l’ha chiamata in causa quando sono ripresi gli scontri addirittura invocando il trattato militare che le lega. Ma anche i legami con l’Azerbaigian sono fortissimi, perché Baku non ha commesso l’errore di associarsi troppo intimamente con i nemici occidentali della Russia. Poi va tenuto conto del ruolo della Turchia, che è alleata dell’Azerbaigian e in una complessa relazione di competizione e cooperazione con la Russia in Caucaso. Insomma uno scenario molto complicato e cangiante”.
L’Iran, pur estraneo al conflitto, ha espresso forte preoccupazione per gli scontri. Perché?
“L’Iran è in una situazione molto particolare. Ha un ottimo rapporto con l’Armenia. Personalmente ritengo che i due Paesi condividano il fatto di essere abbastanza isolati dal punto di vista internazionale e il comune avversario nei popoli turcofoni. La competizione tra mondo persiano e turcofono è stata uno dei fattori determinanti dello sviluppo storico dell’area. Ma in questa parte del mondo la competizione si sovrappone all’integrazione. L’Iran possiede una enorme minoranza di lingua ed etnia azera soprattutto nel nord del Paese. Stiamo parlando di decine di milioni di persone. Nonostante lo stato azerbaigiano rifiuti qualsiasi discorso irredentista vi è sempre il convitato di pietra di una possibile disgregazione etnica dell’Iran. Quindi il legame con l’Armenia serve, nell’ottica iraniana, a controbilanciare questo rischio. Inoltre Iran e Azerbaigian condividono la fede religiosa musulmana sciita, ma con ottiche opposte sulla laicità delle istituzioni e il rapporti tra religione e politica. Quindi è evidente che l’Iran, pur apparentemente estraneo al conflitto, rappresenti un ulteriore fattore di complicazione”.
Come evitare un conflitto su larga scala nel Caucaso?
“Non esistono stati nazionali monoetnici in Europa orientale e nello spazio eurasiatico. E’ questo un assunto fondamentale della storiografia dell’area. In Italia abbiamo una forte tradizione di studi che lo confermano, da Angelo Tamborra ad Antonello Biagini per citare alcuni storici di riferimento. Gli Stati sono sempre una ‘invenzione’ della modernità tarda in questa parte del mondo. Allora occorrono dei criteri per riconoscerne la legittimità. Quello dell’integrità territoriale dei 15 Stati successori dell’Urss è uno di questi criteri, se non il principale. Credo che volerlo rispettato per l’Ucraina equivalga a desiderarlo per l’Azerbaigian. Tutti i conflitti nello spazio post sovietico hanno come origine l’attacco all’integrità territoriale degli Stati. Premesso questo, bisogna auspicare un trattato di pace che funzioni, tutelando le minoranze e stimolando lo sviluppo regionale”.