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Piano Mattei, lo sguardo sull’Africa tra imprese e futuro

Mediterraneo

Foto di Maria da Pixabay

Un aiuto reciproco, da pari a pari. Perseguire l’obiettivo di Enrico Mattei va oltre la semplice pianificazione, persino al di là delle mere logiche politiche. Ragionare sull’Africa come partner, piuttosto che come continente verso il quale destinare un aiuto che rischierebbe di essere effimero, significa scorgere un futuro decisamente più concreto. Perché se è vero che l’instabilità socio-politica prosegue in numerosi Stati, un programma chiaro di investimento e conseguente sviluppo potrebbe contribuire a smorzare persino le criticità interne. Specie se questo fosse basato sul concetto base dell’economia: disporre risorse per generare crescita. E soprattutto un interscambio. Se l’era proposto il progetto Sud Polo Magnetico, della Camera di Commercio ItalAfrica Centrale, e continua a proporlo attraverso una strategia di sviluppo che ben si attaglia alle aspirazione del Piano Mattei. Come spiegato a Interris.it dal fondatore e presidente, ing. Alfredo Cestari, l’Italia può fare la sua parte.

 

Presidente, il progetto Sud Polo Magnetico aveva anticipato anche il Piano Mattei di respiro nazionale: a che punto è il programma di cooperazione l’Africa?
“Siamo andati avanti, non ci siamo fermati. Il progetto Sud Polo Magnetico lo abbiamo anche messo in esecuzione. Tra l’altro ben si sposa con il Piano Mattei, ed è anche molto più ampio del programma del governo. Con un decreto della presidenza del Consiglio, è stato approvato questo piano di aiuti per 4,2 miliardi di euro che provengono dal fondo Clima gestito dai Ministeri degli Esteri e dell’Ambiente. Le risorse sono disponibili perché, attraverso Cassa Depositi e Prestiti, sono già nella disponibilità del nostro governo”.

Come, dove e in che misura interverrà il nuovo programma?
“Il Piano Mattei ci vede ancora protagonisti. E le risorse previste sono importanti. Chiaramente non si può intervenire su tutti e cinquantaquattro gli Stati ma, se si scelgono alcuni Paesi-target o se si interviene dove le imprese italiane stanno già investendo, ossia soprattutto nell’Africa sub-sahariana, da dove peraltro provengono i flussi migratori. Questo piano deve integrare due possibili soluzioni, mirate in primis all’intervento nei Paesi di origine delle migrazioni. Intervenendo su numero limitato di territori, i risultati sarebbero più visibili e concreti, evitando così piccoli interventi a pioggia. Mozambico, Burundi, Ruanda, Uganda, Gabon, i due Congo, Camerun e Angola saranno presi come primo riferimento per avviare la cooperazione”.

Quali sono gli obiettivi?
“Si punta a fare degli interventi che possano ridurre le difficoltà che le loro popolazioni vivono, dalla mancanza di energia elettrica a quella di acqua, infrastrutture sanitarie e di comunicazione, sia fluviale che marittima e aerea. Pur cercando di sviluppare progetti nelle aree di origine, lo Stato si è dato il compito che lo Stato di evitare la dispersione delle risorse. Il mio intervento è per investire in forma imprenditoriale: non solo aiutare loro ma aiutare anche le nostre imprese, l’occupazione, la forza lavoro del nostro Paese, soprattutto quella del Sud. Non dobbiamo fare l’errore di fornire risorse senza seguirne gli effetti moltiplicatori. Ritengo che anche un progetto di 100 milioni di euro dovrebbe moltiplicarsi almeno per 30-40 volte. In maniera indiretta si può quindi trarre beneficio investendo con questi Paesi”.

Un piano di ampia portata, con singoli Stati, richiede la presa di accordi ad hoc. Qual è il margine di manovra sulle esportazioni? 
“Si può contrattualizzare con loro la possibilità di ridurre i dazi doganali per le esportazioni delle imprese italiane. Oggi i nostri prodotti arrivano per triangolazione in quelle aree. Paradossalmente, siamo meno competitivi perché non ci sono accordi per la riduzione su prodotti agroalimentari, edili o sanitari. I dazi doganali arrivano anche al 50% sul valore complessivo dei prodotti”.

E il passaggio successivo?
“Investire per opere prioritarie, che variano dal settore dell’agricoltura alle aree interne fino alla formazione di giovani generazioni. Abbiamo bisogno di tante persone formate, anche tramite flussi migratori controllati. Ad esempio, da un’azienda di trasporti del Nord, ho avuto richiesta di poter far venire 30 mila giovani che siano formati e che vadano a svolgere il lavoro di autisti. Potremmo quindi aver bisogno, per le nostre attività comuni, di manodopera specializzata che in Italia si trova sempre più raramente”.

Chiaramente, accanto al potenziamento della forza lavoro interna, di occupazione se ne crea anche nei Paesi partner…
“Assolutamente. Questi investimenti devono generare occupazione innanzitutto per quelle popolazioni. Bisogna tener presente che, per ogni posto di lavoro generato, un giovane potrà sostenere una famiglia fino a dieci persone. Inoltre, si aggiunge la riduzione delle difficoltà: la possibilità di andare a scuola, di curarsi, la disposizione dell’energia elettrica di base, anche per avviare la coltivazione dei prodotti che, se privi di tale supporto, non potrebbero nemmeno essere conservati nei refrigeratori”.

Quei rapporti paritari che auspicava Mattei?
“Trascorsi oltre 65 anni, la visione straordinaria di Enrico Mattei è ancora valida. Si è superata anche la grande crisi energetica che l’Italia aveva paura di affrontare con il conflitto russo-ucraino, proprio grazie agli accordi da lui stipulati con alcuni Paesi africani. Aiutare loro in maniera paritetica, senza dimenticare di aiutare le nostre imprese e i nostri giovani, può significare una maggiore attività di crescita comune. Evitando, ad esempio, la chiusura di aziende e la perdita di posti di lavoro”.

Abbiamo parlato di approvvigionamenti: il settore interessato è perlopiù quello energetico?
“Le filiere sono varie. Chiaramente l’agricoltura e l’energia sono i settori trainanti, perché la capacità di un Paese di produrre energia, significa che questo è in grado di svilupparsi. Noi puntiamo a fornire acqua, luce per poter dare la possibilità di crescere. Sarebbe sbagliato pensare a un aiuto che non sia rivolto all’infrastrutturazione: l’impiego delle risorse, che non sono tantissime, sarà quindi per aree e progetti strategici, che creino immediatamente lavoro e migliori condizioni di vita. E, dall’altro lato, creare accordi di cooperazione che facilitino l’ingresso delle nostre imprese per l’esportazione del Made in Italy”.

Quanto incide il Made in Italy in termini di esportazione?
“Con il Covid siamo stati penalizzati di circa 4 punti nel bilancio delle esportazioni. Chiaramente dobbiamo recuperare terreno e provare ad aumentare le esportazioni perché significherebbe far lavorare le nostre imprese, mantenere posti di lavoro e crearne di nuovi. Altrimenti, la disoccupazione, i licenziamenti e gli oneri sociali per il governo sarebbero talmente elevati che varrebbe la pena consolidare questa cooperazione, affinché le imprese possano migliorare le relazioni bilaterali con queste realtà. E quindi creare nuove aree di mercato, mantenendo in vita le filiere di produzione e trasformazione”.

Quest’area del mondo è storicamente soggetta a instabilità sociale e politica, alcune crisi sono emerse anche di recente eppure numerosi competitor, Cina in primis, hanno messo occhi e piani strategici proprio in Africa. Anche questo è un aspetto da tenere in considerazione…
“I competitor ci sono, a cominciare dalla Cina, e bisogna tenerne conto. Ma occorre farlo anche con le recenti difficoltà che la Francia sta avendo nei Paesi in prevalenza francofona che ne dipendevano sotto i principali profili. Tutti vogliono posizionarsi in quella parte del mondo, intanto per un capitale umano da un miliardo e 350 milioni di persone, che diventerà 2 miliardi e 400 milioni per i prossimi trent’anni, poiché sono una popolazione giovane. È chiaro, quindi, come questo sia un mercato particolarmente attenzionato. C’è la parte negativa dei flussi migratori ma anche quella, importantissima, del consumatore. C’è necessità di energia, di edilizia e di tecnologie. Ed è vero che i competitor ci sono, fra cui gli Stati Uniti e la Russia, con la quale alcuni Paesi hanno relazioni bilaterali molto forti”.

Realisticamente, l’Italia può fare la sua parte? Magari sopperendo al “numero” con la qualità?
“L’Italia, come piccola Nazione ma fra le prima al mondo, deve fare i conti con questo quadro. E anche con le mire espansionistiche che provengono da molte parti del mondo. Abbiamo però un valore aggiunto: la qualità dei nostri prodotti è riconosciuta, le imprese italiane sono molto considerate per le loro competenze e altrettanto i nostri professionisti. Abbiamo quindi la possibilità di fare un buon lavoro, senza timore di dover competere. Anche solo aumentare di qualche punto percentuale l’esportazione verso l’Africa significherebbe un volume d’affari importante. Se le risorse messe a disposizione saranno ben investite, con una programmazione strategica prolungata nel tempo, potremmo svolgere un ruolo importante. Le stesse questioni che abbiamo sollevato con il progetto Sud Polo Magnetico, ponendoci l’obiettivo di una reale cooperazione economica”.

Damiano Mattana: