“Dell’attentato del 13 maggio 1981 in piazza San Pietro parlai a papa Wojtyla due mesi prima della sua morte. Le sue riflessioni erano tutte orientate in un’ottica di fede. In chiave provvidenziale. Era persuaso che il mandante fosse ad est. In una guerra fredda che lo vedeva come elemento destabilizzante. Nell’equilibro basato sul terrore atomico. Tra chi diede l’ordine di attentare alla sua vita e chi eseguì l’incarico funzionava un meccanismo di scatole cinesi. Concepita per nascondere la mano di chi scagliava il sasso. Giovanni Paolo II ne era pienamente consapevole”, spiega a Interris.it Gianfranco Svidercoschi, ex vicedirettore dell’Osservatore Romano. Il decano dei vaticanisti è stato amico e collaboratore di Karol Wojtyla per l’intero pontificato. E aggiunge Svidercoschi: “Al gesto di fargli visita in carcere, non è mai seguito un pentimento di Alì Agca per aver attentato alla sua vita. E ciò addolorava molto Karol Wojtyla”.
Spari a piazza San Pietro
“Era mercoledì, c’era l’udienza generale– rievoca Svidercoschi-. Giovanni Paolo II sulla papamobile stava facendo il giro della piazza per salutare i fedeli. Aveva appena preso in braccio una bambina bionda. L’aveva alzata in alto. Come per farla vedere a tutti. E l’aveva restituita ai genitori. Proprio in quel momento. Ma coperto dal rumore della gente. Ci fu il primo colpo. Poi il secondo. E il Papa cominciò a piegarsi con una smorfia di dolore. Fino a scivolare tra le braccia del suo segretario, monsignor Stanislao Dziwisz. La jeep partì a grande velocità. Verso i servizi sanitari
all’interno del Vaticano. Quindi al Policlinico Gemelli“.
Situazione grave
“La situazione era decisamente grave- ricostruisce il decano dei vaticanisti-. Karol Wojtyla era in pericolo di vita. Al punto che gli venne amministrata l’unzione degli infermi. Ma, benché lunghissimo e complicatissimo, l’intervento chirurgico
riuscì perfettamente. Però non era ancora finita. Ci fu un seguito
ugualmente drammatico. A causa di una infezione diagnosticata a
fatica. Per cui si rese necessario un secondo intervento. E poi, finalmente,
Giovanni Paolo II poté fare ritorno a casa“.
Apparizione
“In quei giorni, in ospedale, Giovanni Paolo II aveva più volte riflettuto su quella
singolare coincidenza. Fra il 13 maggio dell’attentato. E il 13 maggio
del 1917. Quando c’era stata la prima apparizione della Vergine a
Fatima- rievoca l’ex vicedirettore dell’Osservatore Romano-. Finì per convincersi che fosse stata la Madonna a salvarlo. E ne concluse: ‘Una mano ha sparato. E un’altra mano ha guidato la pallottola‘. Per questo, volle che quella pallottola fosse incastonata. Nella corona della statua della Vergine a Fatima.
Lupi grigi
E quella ‘mano che ha sparato’ il Papa due anni dopo ebbe il coraggio di stringerla. “Quando andò a trovare a Rebibbia il suo attentatore, Mehmet Ali Ağca– evidenzia l’amico e collaboratore di Karol Wojtyla-. Un turco. Appartenente a un gruppo
criminale. I ‘Lupi grigi’. E lui stesso autore di alcuni delitti. Arrestato. Incarcerato. E misteriosamente (o non tanto) liberato. Dopo aver sparato al Papa, aveva tentato di fuggire. Ma era stato bloccato. Prima da una suora. E poi dalla polizia. Un killer professionista, senza dubbio. Ma mandato da chi?”. Erano cadute, l’una dopo l’altra, le ipotesi di una “pista bulgara”. E di una “pista islamica”. Restava “inevitabilmente
il sospetto“, secondo Svidercoschi, che l’ordine di uccidere fosse venuto, se non proprio dal Cremlino, quantomeno dal Kgb. O da schegge impazzite dei servizi segreti.
Sconcerto
“C’era da tener conto dello scenario di quel tempo. L’elezione di un
Papa polacco aveva provocato enorme sconcerto tra i capi comunisti- puntualizza Gianfranco Svidercoschi-. Il suo primo ritorno in patria aveva creato un’atmosfera
di libertà in tutto l’Est. La nascita di Solidarność rappresentava un’insopportabile provocazione per il ‘sistema‘. Ogni giorno di più”. L’ex direttore dell’Osservatore Romano richiama il fatto che stesse morendo il cardinale Stefan Wyszyński. Primate di Polonia. E fiero avversario del regime comunista. “Mettiamo insieme tutti questi elementi. Non si finisce sempre per tornare allo stesso punto
di partenza? Non si finisce sempre per risalire a Mosca e dintorni? Chi voleva far fuori Karol Wojtyla, in quanto ‘grande protettore‘ di Solidarność dal Vaticano?”, si chiede Gianfranco Svidercoschi.
Il perdono mai richiesto
Conclude Svidercoschi: “Oltretutto, quando il Papa andò a trovarlo in carcere, sperando invano che chiedesse perdono, Ali Ağca lo accolse con una domanda. Che, senza che lui se ne rendesse conto, era estremamente rivelatrice. ‘Ma perché lei non è morto? Io so di aver mirato come dovevo’. Perché doveva? C’era qualcuno, evidentemente, che gli aveva ‘commissionato’ quell’assassinio. E lui aveva tirato fuori la sua Browning calibro 9. Per eseguire l”incarico‘ per il quale era stato profumatamente pagato“.