Oggi, per il suo 85° compleanno, gli auguri al Papa del patriarca di Mosca, Kirill. Con l’ipotesi di un nuovo incontro dopo quello del febbraio 2016 a Cuba. Stavolta forse nella capitale russa. In linea con i suoi predecessori. Anzi accentuando il desiderio di comunione e di incontro. Nel tentativo di creare unità e fraternità. Francesco ha compiuto gesti significativi e fecondi. Come appunto lo storico incontro con il patriarca russo Kirill. Quella sollecitata da Francesco è una Chiesa aperta. Pronta a uscire da se stessa. A chinarsi sui poveri. A spalancarsi al mondo e all’umanità. Sentendosene parte. E sapendo di condividere la sua sorte. E di avere contratto, in Cristo, un debito di servizio nei suoi confronti. Forte è nel pontificato di Francesco l’impronta conciliare. Nel 1966, appena un anno dopo la conclusione del Vaticano II, il professor Joseph Ratzinger parla al Katholikentag, a Bamberg. Dice di veder avanzare un “cristianesimo a prezzi ribassati”. E aggiunge: “Un orientamento della Chiesa al mondo, che dovesse rappresentare un suo allontanamento dalla croce, non porterebbe a un rinnovamento della Chiesa. Ma alla sua fine“. Jorge Mario Bergoglio ne è profondamente consapevole.
Il Papa della misericordia
Francesco non trasforma la Chiesa a una ong della solidarietà e della carità. Né ad un museo di antiche glorie culturali ed artistiche. Testimonia Cristo sulle strade del terzo millennio globalizzato. Sa che la società non è scristianizzata. E’ confusa come un gregge senza direzione. Il comunismo ha fallito ma il capitalismo accentua le disuguaglianze. Come quello di Giovanni Paolo II è stato un pontificato-cerniera tra Est e ovest durante la guerra fredda. Così quello di Francesco lo è tra nord e sud del mondo. Unisce teoria e pratica. Sulle orme di chi lo ha preceduto sul soglio di Pietro, papa Bergoglio ritiene che insegnare e studiare teologia significhi vivere su una frontiera. Quella in cui il Vangelo incontra le necessità della gente. A cui va annunciato in maniera comprensibile e significativa. Alla larga, dunque, da una teologia che si esaurisce nella disputa accademica. O che guarda l’umanità da un castello di vetro. Si impara per vivere. Teologia e santità sono un binomio inscindibile.
Risposta alla globalizzazione
La teologia elaborata nelle accademie deve essere radicata. E fondata sulla Rivelazione. Sulla Tradizione. Ma è tenuta anche ad accompagnare i processi culturali e sociali. In particolare le transizioni difficili. Oggi, infatti, la teologia deve farsi carico anche dei conflitti. Non solamente quelli che si sperimentano dentro la Chiesa. Ma anche quelli che riguardano il mondo intero. E che si vivono nella concretezza della quotidianità. Francesco esorta a non accontentarsi di una teologia da tavolino. Il luogo di riflessione dei teologi siano le frontiere. Un monito paterno e sollecito a non cadere nella tentazione di verniciarle, Di profumarle. Di aggiustarle un po’ e di addomesticarle. Infatti anche i buoni teologi, come i buoni pastori, odorano di popolo e di strada. E, con la loro riflessione, versano olio e vino sulle ferite degli uomini.