In Africa, i neonati e bambini affetti da HIV continuano a registrare alti tassi di mortalità nonostante la disponibilità di terapie antiretrovirali e l’avvio tempestivo delle cure. I dati mostrano che la mortalità raggiunge il 10% entro il primo anno di trattamento e sale al 12% entro il secondo anno, restando stabile al 12% anche dopo i tre anni. Questi numeri risultano particolarmente preoccupanti se confrontati con i tassi europei, dove la mortalità è inferiore all’1%. Tuttavia, una nuova speranza si profila all’orizzonte. Due studi dei ricercatori del consorzio EPIICAL, guidato dalla Fondazione Penta e coordinato scientificamente dall’Ospedale Pediatrico Bambino Gesù (OPBG), hanno individuato due proteine nel sangue che si rivelano predittive del rischio di mortalità. Consentiranno di identificare precocemente i bambini a rischio e intervenire con terapie mirate. Interris.it ha intervistato il dott. Paolo Palma, responsabile di Immunologia clinica e Vaccinologia dell’Ospedale Bambino Gesù, professore di Pediatria all’Università di Roma “Tor Vergata” e coordinatore dello studio, per approfondire le ragioni economiche e sociali dell’alto tasso di mortalità per HIV dei bambini in Africa.
L’intervista al dott. Paolo Palma (OPBG)
Quanto è diffusa l’infezione da HIV in età pediatrica in Africa e in Italia?
“In Africa, ci sono circa 1.800.000 bambini affetti da HIV, la maggior parte dei quali vive nell’Africa subsahariana, che rappresenta il 90% dei casi pediatrici a livello mondiale. Ogni anno, oltre 100.000 bambini si infettano”.
E’ un tasso di mortalità molto alto nonostante le cure disponibili…
“Sì. I nostri studi, condotti dal consorzio internazionale EPIICAL sotto la guida dell’Ospedale Pediatrico Bambino Gesù e pubblicati su riviste scientifiche come Lancet e Nature Scientific Reports, indicano che la mortalità nei bambini con HIV in Africa rimane sopra il 10% entro il primo anno di trattamento. Le attuali terapie antiretrovirali mirano a ridurre la carica virale del virus HIV fino a renderla non rilevabile, proteggendo il sistema immunitario. Ma in Africa anche quando le terapie iniziano entro i primi sei mesi di vita, il tasso di mortalità è molto più alto rispetto all’Europa, dove è sotto l’1%”.
Quali sono i principali fattori di rischio?
“Tra i principali fattori di rischio ci sono le condizioni socioeconomiche avverse e l’alta carica virale all’inizio delle cure. L’alta carica virale è una situazione da cui partono tutti i bambini che si infettano. Il problema centrale è dunque l’aderenza alla terapia e la somministrazione della stessa. Anche quando i farmaci sono disponibili, vi sono ostacoli nel territorio: ad esempio, una madre può trovarsi in difficoltà perché il bambino sputa o vomita il farmaco, e spesso manca un adeguato sostegno territoriale. L’infezione da HIV viene ancora percepita come una condizione stigmatizzante. Non la si considera come una condizione cronica, ma come qualcosa di cui vergognarsi. Nelle comunità più tradizionali, ad esempio, le madri con infezione da HIV evitano di portare i propri figli in ospedale per timore di rivelare la propria condizione. Rimanendo sole ad affrontare un problema della cui gravità a volte non hanno completa consapevolezza”.
Quali sono concretamente gli ostacoli all’aderenza alla terapia?
“Gli ostacoli all’aderenza alla terapia in Africa sono legati a diversi fattori complessi, tra cui la povertà e l’analfabetismo diffuso. Spesso i pazienti, soprattutto quelli delle zone rurali, non si presentano regolarmente ai controlli e non completano i trattamenti prescritti. In molti casi, dopo il primo incontro con i medici, non tornano per ritirare i farmaci o per eseguire i follow-up necessari. È quindi necessario inviare personale sanitario a cercarli nei villaggi. Perché l’assunzione non continuativa della terapia rende il virus maggiormente resistente e più difficile da sconfiggere. Nei bambini deceduti, infatti, dalle analisi del sangue è emerso che la terapia era stata data, ma non in modo costante. Inoltre, l’HIV presenta una fase iniziale asintomatica che può portare i pazienti a sottovalutare la malattia, mentre il trattamento cronico richiede visite regolari per monitorare e regolare i dosaggi; una prassi difficile da seguire in contesti dove le strutture sanitarie sono lontane e le risorse economiche molto limitate. In sintesi, la vittoria contro l’HIV in Africa non passa esclusivamente dalle nuove terapie e, in futuro, da un possibile vaccino. Ma è innanzitutto una guerra contro la povertà, la miseria culturale e lo stigma sociale”.