La Giornata mondiale dei genitori è una ricorrenza istituita dalle Nazioni Unite nel 2012 con l’obiettivo di riconoscere il ruolo cruciale dei genitori riguardo la cura, la protezione e l’educazione dei propri figli. In particolare, con tale giornata, si è inteso rimarcare il diritto dei bambini di crescere all’interno di un contesto familiare armonioso, solcato da felicità, comprensione e amore. Interris.it, in merito all’importante significato di questo giorno, al rapporto tra genitori e figli e ai nuovi compiti educativi che spettano agli stessi, ha intervistato padre Alfredo Feretti, direttore del “Centro La Famiglia” di Roma, il primo consultorio sorto nella città di Roma, fondato nel 1966 da padre Luciano Cupia degli Oblati di Maria Immacolata.
L’intervista
Il 1° giugno si celebra la Giornata mondiale dei Genitori, qual è il significato più profondo dell’essere genitori?
“Il significato più profondo di questa giornata è scritto nel nostro proprium umano. In fondo maternità e paternità sono la pienezza della vita di una persona. Senza la dimensione generativa, la quale può essere anche concretamente genitoriale, siamo davvero un po’ sterili. Ecco perché, se manca questa parte, qualcosa viene meno. Essere genitori significa essere capaci di esprimere al meglio la nostra potenzialità umana e la capacità relazionale amante nello stesso tempo. Perché, essere genitori, per me, è mettere a frutto l’esperienza dell’amore. Senza di questo diventa una meccanica, qualcosa che si fa attraverso un’ingegneria genetica. L’essere genitori è molto di più, un qualcosa che dà all’umano una pienezza particolare, oltretutto perché, essere genitori, non è solo mettere al mondo dei figli ma prendersene cura. Ecco perché, la maternità e la paternità, sono arti che si apprendono lungo la vita. Non si nasce padri e madri, si diventa, non perché mettiamo al mondo un figlio, ma ce ne prendiamo davvero cura, con le nostre caratteristiche. Tutte le volte che ci assumiamo la responsabilità di prenderci cura dell’altro, in un certo senso, viviamo l’esperienza della genitorialità. Ecco il motivo per cui allargherei, l’idea dell’essere genitori, dalla fisicità alla spiritualità”.
Papa Francesco nella sua esortazione post sinodale “Amoris Laetitia” ci parla dell’amore come dinamica fondativa della famiglia, che insegnamento devono trarne i genitori e i figli di oggi?
“Un insegnamento di fondo, scontatissimo ma che nella prassi non è preso in considerazione, è il fatto che l’amore è un’arte. Non è solo un sentimento, ma va coltivato proprio perché è un’arte da sviluppare. Se lo stesso è un’arte da sviluppare, soprattutto nella dimensione genitoriale, bisogna mettere in atto tutte quelle abilità che noi possediamo ma non sempre sviluppiamo a sufficienza. Ad esempio, per essere buoni genitori, una prima cosa scontata, è conoscere sé stessi. Sembrerà strano, ma molte volte mi trovo in consultorio, dove i genitori mi portano dei problemi con i loro figli, ma in primis lavoriamo su loro stessi perché non si conoscono. Conoscersi, nella propria vera essenza, ci mette davvero nelle condizioni di offrire all’altro le parti migliori. Questa è una modalità di amare, conoscere sé stessi, la quale ci permette di non cadere in quelle trappole dell’amore ad ogni costo, come sacrificio e basta. La conoscenza di sé ci permette in qualche maniera di esprimere l’amore, e a maggior ragione l’amore verso i figli, nell’equilibrio. C’è poi un’altra abilità che noi sappiamo, la conoscenza dell’altro. Tante volte ci scontriamo o ci incontriamo con genitori che dicono di non riuscire a parlare con i loro figli, c’è una letteratura sterminata di corsi che aiutano in questo. Io, molto più prosaicamente dico che siamo incapaci di conoscere l’altro perché non siamo capaci di leggere il bene per l’altro. Si può realizzare questo bene solo in una relazione d’amore con loro. L’amore che abbiamo e nutriamo per noi e per l’altro fa emergere tutte le risorse migliori. Qualche volta, nella gestione della genitorialità, non si tirano fuori le risorse migliori in quanto si riservano quasi tutte per il lavoro e per i figli non si dà il meglio. È importante tutto questo, come nell’arte di amare. Papa Francesco dice di “portare il patrimonio delle nostre famiglie di origine nella nuova famiglia”. In consultorio, ancora oggi, mi scontro con difficoltà di relazione legate a un mal vissuto nelle famiglie di origine. Le stesse portano un bagaglio di conoscenza, di esperienza e anche di fatica, che dà però la possibilità di affrontare il nuovo che ogni giorno si presenta e soprattutto ci preserva dalla tentazione più grossa, di appropriarci dell’altro, come qualche volta si fa con i figli. È facile ripetere le belle frasi di Gibran “i figli non ci appartengono, tu sei l’arco che lancia i figli verso il domani”. Nella realtà però, quando usiamo il pronome “mio”, lo intendiamo non come un indicativo ma come un possessivo, in questo caso si verifica un disastro”.
Quale deve essere il ruolo della Chiesa Cattolica nella formazione della famiglia e nel percorso che porta alla genitorialità?
“Potrebbe sembrare che la Chiesa Cattolica sia qualcun altro. La Chiesa Cattolica sono le famiglie battezzate, quindi dovremo dire “cosa possono fare le famiglie credenti”. Altrimenti, in questo caso, intenderemmo gli operatori pastorali, quindi partiremo dai vescovi, i sacerdoti e i diaconi e dopo forse giungeremmo alle famiglie. Il ruolo che deve avere la Chiesa è l’assemblea dei credenti, cioè le famiglie che hanno ricevuto lo straordinario dono del Battesimo e non solo loro, perché poi, la ricchezza della vita, è molto più larga di coloro che frequentano le nostre comunità. Il ruolo è proprio quello dei genitori, anzi, il futuro per me, non è fare una pastorale della famiglia, settorializzando per l’ennesima volta la pastorale. Dobbiamo aiutare le famiglie che hanno tutte queste espressioni al loro interno, a prendersi sempre più cura della vocazione che hanno e quindi nei compiti e nelle responsabilità che ne discendono. La comunità cristiana, per questo motivo, ha il dovere di sostenere le fatiche e i fallimenti. Nessuno nasce genitore, si impara con il tempo e siccome è un’arte, si sbaglia molte volte. La comunità cristiana può mettere insieme e aiutare a fare rete, sia per le famiglie che mettendo a disposizione gli operatori vari. Chiedere aiuto è il modo migliore per risanare le situazioni. Quando non si sa chiedere aiuto si rischia sempre di essere autodidatti e fare qualche volta dei disastri”.
In che modo i genitori possono superare i conflitti intergenerazionali con i figli e incentivare l’armonia della famiglia?
“Essere genitori è un’arte che si apprende in corsa, vivendo con i figli giorno dopo giorno, sapendo che non si mettono in atto prassi collaudate che devono valere per tutti i tempi. Chi non ha sentito la frase “ai miei tempi bastava un’occhiata e tutto si sistemava, oggi i figli fanno quello che vogliono”. Non possiamo applicare un cliché buono per sempre. La vita, è questo il segreto, va accompagnata nell’oggi, con la cultura che c’è, con i mezzi di comunicazione di cui disponiamo, vivendo giorno per giorno con i figli. In un impegno costante nell’affrontare le problematiche, i dilemmi e imparando dagli inevitabili errori di questo percorso. In fondo, in una parola, sapere che non si può essere genitori perfetti secondo il nostro cliché, si può essere, e non è una diminutio, genitori sufficientemente buoni”.
Quale valore assume il perdono quando si è genitori?
“Il perdono deve avere almeno due gradini distinti. Imparare che cos’è il dono, altrimenti non si può conoscere il perdono e imparare il significato di gratitudine e gratuità. Per arrivare al perdono, occorre assumere la capacità di imparare la logica del dono. Essere competenti nel dono e di conseguenza nella gratuità. Se impariamo l’arte del dono, della gratitudine e della gratuità, con gli adulti e con i figli, allora entra in gioco il perdono, il quale è una facoltà difficile e non è mai un atto, ma è sempre un processo. A volte è un processo molto lungo perché indica la riconciliazione, un atto unilaterale che parte da noi stessi, va verso l’altro e non domanda condizioni perché possa essere messo in atto. Qui però sono necessarie disciplina, pazienza e umiltà, sapendo che il perdono fa stare bene anche chi lo dà, non solo colui che lo riceve. Lo stesso non è un cammino religioso per i credenti che si sacrificano e dimenticano. Perdonare non è dimenticare, è far spegnere tutte le emozioni e i sentimenti che hanno a che fare con una vendetta pari, quindi con un risentimento. Il perdono, quindi, è la conseguenza di aver appreso gratitudine, gratuità e dono”.
Come devono raccontare la guerra i genitori ai figli piccoli?
“Non bisogna negare la guerra come qualche volta si nega la morte. Non la si deve, per quanto è possibile, raccontare come si racconta un videogioco, perché i nostri figli hanno a che fare con le guerre virtuali nelle modalità più assurde e cruente. La sfida è presentare la guerra nella sua realtà più cruda, cioè far capire loro che la guerra è assurda per la persona, non un gioco. Nella guerra tutto comporta una distruzione di ciò che è proprio dell’uomo e dell’umanità. Soprattutto è la negazione della dignità della persona. Bisogna raccontarla non prendendo le parti di uno o dell’altro, ma di chi soffre, di tutti coloro che, in una situazione di quel genere, stanno pagando un prezzo altissimo”.