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P. Aboue: “Cogliamo nella società i segnali di attenzione a chi soffre”

In occasione della XXXII Giornata mondiale del malato, l’intervista di Interris.it a padre Medard Aboue, consultore generale per il ministero camilliano

Dai primi secoli dopo Cristo, con le opere di assistenza ai poveri e ai malati realizzate dai Padri della Chiesa, fino alle numerose strutture cattoliche specializzate oggi diffuse in tutto il mondo, la Chiesa mette in pratica la sua missione di curare e guarire chi è affetto da una patologia. La centralità del sofferente – “gli ammalati, i fragili, i poveri sono nel cuore della Chiesa” scrive papa Francesco – è impressa e trasmessa nella Giornata mondiale del malato, istituita nel 1992 da San Giovanni Paolo II, mentre oggi nel nostro Paese la sanità non gode di ottima salute. La data è l’11 febbraio, anniversario della prima apparizione della Madonna di Lourdes nella grotta di Massabielle, sui Pirenei. “Lourdes è sempre stata segnata dalla presenza dell’umanità sofferente e dall’intercessione di Maria Salus infirmorum, quindi Giovanni Paolo II ha voluto che in questo giorno tutta la Chiesa rimettesse al centro della sua preghiera e soprattutto della sua azione il malato bisognoso di assistenza e tutte le questioni legate alla sua condizione, affinché possa guarire o almeno non rimanere abbandonato”, dice a Interris.it padre Medard Aboue, consultore generale per ministero camilliano, congregazione religiosa fondata da Camillo de Lellis (proclamato santo nel 1746) verso la fine del XVI secolo e elevata a ordine dei chierici regolari Ministri degli infermi da papa Gregorio XIV nel 1591. Quest’anno, per la trentaduesima edizione, è stato scelta come tema l’importanza della cura, oltre che del corpo, anche delle relazioni del malato, materiali, personali e spirituali. “Siamo creati per stare insieme, non da soli”, scrive il Santo Padre Francesco nel suo messaggio per la Giornata, “e proprio perché questo progetto di comunione è inscritto così a fondo nel cuore umano, l’esperienza dell’abbandono e della solitudine ci spaventa e ci risulta dolorosa e perfino disumana”, a maggior ragione nel periodo della malattia, tempo di fragilità ma anche condizione che ci porta a riflettere su noi stessi, su quello che ci circonda e come ci stiamo dentro. Per questo il pontefice spiega che “prendersi cura del malato significa anzitutto prendersi cura delle sue relazioni, di tutte le sue relazioni: con Dio, con gli altri – familiari, amici, operatori sanitari –, col creato, con sé stesso”.

L’intervista

“La condizione dei malati invita tutti a frenare i ritmi esasperati in cui siamo immersi e a ritrovare noi stessi”, scrive il Santo Padre nel suo messaggio. Padre Aboue, come leggere queste parole?

“Ciò di cui parla Papa Francesco non è necessariamente, o solamente, una cosa fisica o materiale, è una consapevolezza filosofica e antropologica della società e della cultura nella quale viviamo. Quale senso ognuno di noi dà a questa società e alla sua cultura individualista che genera tanta preoccupazione? Il tipo di società che stiamo costruendo e il sistema culturale che ne deriva sono sostenibili così come sono? In ogni caso i veloci cambiamenti climatici, le domande attorno all’intelligenza artificiale e tante altre questioni sulle quali il mondo intero si interroga rendono sicuramente necessaria una seria riflessione collettiva. La sofferenza e la malattia possono essere momento di riflessione perché quando capitano, volente o nolente, i ritmi sono rallentati, frenati”.

Come i camilliani sono al fianco degli infermi nei loro bisogni fisici e spirituali?

“Per l’operatore pastorale, prendersi cura delle relazioni è prima di tutto rendersi disponibile alle necessità spirituali e umane del malato e di chi lo circonda, anche perché la cura e il bisogno di guarire o di sollievo chiedono l’intervento indispensabile di chi è vicino, del personale sanitario. Però ogni intervento deve tenere conto del bisogno, della richiesta del malato e non della soddisfazione di chi interviene. Da camilliani prestiamo attenzione, nel concetto di relazione pastorale, alle richieste e alle angosce di ognuno, l’ammalato, i familiari, il personale curante, i volontari, per creare una relazione. Ciò richiede tanta capacità di discernimento. Quando le persone sentono in noi quella professionalità pastorale, si affidano”.

Quali sono i principi della pastorale sanitaria?

“La Pastorale della salute è sorretta di due principi importanti: la prossimità e l’ascolto. Per prossimità si intende la presenza reale e la disponibilità a essere vicino alle persone e alle loro famiglie nel tempo della malattia. Il secondo è esser capace di ascoltare, in modo paziente, senza fretta e senza pretesa di aver risposte alle domande di senso o a giustificare Dio. È un ascolto che spesso si fa silenzio, sguardo e capacità di cogliere l’attimo favorevole per dire una parola o una risposta che consoli e lenisce le ferite sopite nell’anima. Poi di seguito sapere quando parlare dei sacramenti perché raggiungano il loro vero fine. Aiutiamo le persone a diventare consapevoli che la nostra vita trova la sua pienezza nell’incontro definitivo con il Signore”.

Chi sono gli “infermi” di oggi?

“Gli infermi sono in primis gli ammalati, ma in fin dei conti siamo tutti infermi in qualche modo. L’essenziale è, come dice Papa Francesco saper rallentare e incontrare sé stessi nel silenzio, nel raccoglimento e nella vera meditazione come cura del proprio rapporto con Dio o con la trascendenza. In quella meditazione non è difficile scoprire e accogliere la propria infermità”.

La malattia della contemporaneità è la solitudine, prodotto della cultura dello scarto?

“La cultura dello scarto c’è sempre stata, forse oggi se ne sente parlare di più grazie alle tecnologie e ai mezzi di comunicazione. La nostra società non è perfetta ma dà dei segnali positivi, di attenzione, nei confronti chi è sofferente, cogliamoli e lavoriamo per migliorare ciò che non funziona. Però dobbiamo anche dirci che siamo tutti vittime inconsapevoli di un sistema sociale di cui non siamo più padroni e che va come un fiume in piena. Rendiamoci conto di questo e alimentiamo ciò che difende la vita dei più fragili, promuove la cultura della vita, assiste gli anziani, si oppone a ciò che va contro la vita nascente e presta attenzione a relazioni umane sincere, forti, positive e costruttive. Al di là della cultura contemporanea, l’uomo nella profondità del suo cuore sperimenta la solitudine perché è fatto per relazionarsi”.

Come possiamo seguire l’esempio del buon samaritano e farci a nostra volta prossimi di un nostro fratello che ha bisogno, diventando “artigiani di vicinanza e di relazioni fraterne”?

“Diventare buon samaritano e artigiano di relazioni fraterne è il risultato di processi educativi che partono dall’infanzia. Siamo esseri di relazione, educhiamoci a buone relazioni e credo che tutti ne trarremo solo benefici. Così si diventa un ‘buon samaritano’”.

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