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Oltre il tifo violento: quando lo sport è condivisione di valori

Nei grandi eventi, lo sport diventa davvero un'occasione di fratellanza. Barillà (La Stampa): "Prevalgono scambio culturale e sostegno reciproco"

È possibile scindere lo sport dalla passione che lo anima? Risposta difficile. Da un lato, infatti, c’è il fuoco sacro di chi la disciplina sportiva la pratica, magari coltivando ambizioni e bilanciandole con la coltivazione di valori imprescindibili, come il rispetto e la cultura del lavoro. Dall’altro, però, c’è chi di fuoco ne sperimenta un altro, privato della sua componente “sacra” e convogliato nella direzione opposta a quella dello sport come connubio di sentimenti positivi. Un aspetto che, in realtà, si manifesta perlopiù in una disciplina in particolare, storicamente più predisposta a fagocitare nella pratica sportiva aspetti della vita pubblica, come la politica o l’appartenenza cittadina. E questo nonostante il calcio figuri, come altre decine di sport, tra quelli praticati durante le competizioni olimpiche.

Lo sport e la vita

I cinque cerchi, di per sé, non mettono al riparo lo sport dalle derive sociali. E, nei decenni, sono stati svariati gli episodi che, sfruttando la mediaticità dell’evento, hanno ottenuto risonanza storica. In alcune occasioni, come il guanto nero di Tommie Smith e John Carlos ai Giochi di Città del Messico, nel 1968, si è trattato di gesti simbolici. In altri casi, come nelle successive Olimpiadi di Monaco di Baviera, di azioni estremamente violente che, nel caso specifico, portarono alla morte di undici atleti israeliani, uccisi da un commando del Settembre nero. Perché, in fondo, lo spirito olimpico può sopire (e in larga parte c’è riuscito) le intemperanze sociali, culturali o geopolitiche, ma senza riuscire ad accantonarle del tutto.

Una mescolanza di cultura

Eppure, nel rispetto della logica con la quale nacquero nell’antichità, durante le Olimpiadi gli esempi di sportività genuina hanno decisamente prevalso sui momenti in cui questa ha lasciato il passo alle contese del mondo. Con una prova tangibile della reale universalità dello sport non tanto (o comunque non solo) nella messa in atto degli atleti, quanto nella convivialità e nella condivisione degli spalti. Un’atmosfera fatta di colori, tifo e passione, quella dall’aspetto migliore. “Dipende ovviamente dalle circostanze – ha raccontato a Interris.it Antonio Barillà, giornalista de La Stampa e storico inviato alle grandi manifestazioni sportive -. Ci sono delle frange estremiste anche in queste manifestazioni, che tendono a fare quel tifo che noi non amiamo. Ed è anche vero che ci sono eventi che acuiscono le rivalità che sono esasperate. In linea di massima, però, c’è una grande fratellanza, mescolanza di cultura, prevalenza di scambio culturale, sostegno reciproco e condivisione sul fatto che, in fondo, si partecipa a una festa”.

Simboli di unità

Circostanze che, chiaramente, si manifestano con maggior facilità durante competizioni come i Giochi olimpici, dove la nazionalità è sinonimo di culture a confronto sotto l’ala dello spirito sportivo. Tuttavia, anche durante eventi prettamente calcistici, come i Mondiali di calcio, l’atmosfera si scrolla di dosso i retaggi dell’appartenenza di tifo, almeno nell’arco dell’evento: “Ricordo ad esempio gli ultimi Mondiali, in Qatar: le tifoserie sono tendenzialmente divise in gruppi. Lì no. Assistevi a queste esplosioni di colori, di attenzioni. Questa sensazione ce l’hai. Io amo, in particolare, le partite inaugurali o le cerimonie di apertura. Perché lì partecipano davvero tutti i tifosi. Li vedi unirsi”.

Dal social al sociale

Emozioni che, in qualche modo, mettono un divisorio tra ciò che trasmette l’assistere a un evento con i propri occhi e viverlo “da remoto”, ponendo uno schermo come filtro e, successivamente, come valvola di sfogo: “I social – ha spiegato Barillà – spesso raccolgono persone che sfogano i peggiori istinti perché coperti da uno schermo. Nel luogo, nell’imminenza, è molto più facile assistere a cose non divisive. Poi, ci sono situazioni complicate ma trovi quasi sempre cose storiche che ti colpiscono. I Mondiali in Giappone, nel 2002, sono stati d’esempio: una volta eliminati i nipponici, i tifosi locali sceglievano un’altra squadra per cui tifare. E vederli truccati, ad esempio, con i colori americani, è stato di sicuro riconciliante col vero spirito sportivo”. Allo stesso modo, durante gli ultimi Mondiali, è stato “bello vedere l’unità portata dal Marocco, diventato simbolo dell’intera comunità del mondo arabo”.

La cultura sportiva

Senza dimenticare quella componente che, più di ogni altra, determina la possibilità o meno di vivere lo spirito sportivo direttamente in loco: “Chi si può permettere di andare a vedere il Mondiale o ha passione estrema o è benestante. Difficile che un ultras possa farlo. Allora è più facile che lì vada la famiglia che la trasforma in una vacanza, che magari può permettersi di restare fuori quindici giorni”. Il che, in qualche modo, chiude il cerchio ma apre anche le porte a diverse modalità di fruizione dello sport. Perché, se vissuta con coscienza, anche la convivialità del vedere una partita in tv può generare cultura sportiva.

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