“Occorre sempre parlare di Pace! Occorre educare il mondo ad amare la pace, a costruirla, a difenderla”, esortava così papa Paolo VI nel messaggio dell’8 dicembre 1967 che istituiva la prima Giornata mondiale della pace, il 1° gennaio 1968. Una celebrazione che doveva essere, nelle intenzioni del pontefice, augurio e premessa che la pace avrebbe d’ora in poi dominato la storia a venire.
L’intervista
L’orizzonte della pace è sembrato più lontano che mai nell’anno che si appena concluso, con l’escalation del conflitto nel Vicino Oriente tra Israele e Hamas dopo l’attacco del 7 ottobre scorso, in aggiunta alla guerra in Ucraina cominciata da ormai quasi due anni. Senza dimenticare le altre tensioni sparse nel mondo di quella “guerra mondiale a pezzi” che papa Francesco denuncia da tempo. Con la speranza che nell’anno nuovo si accorci la distanza dall’orizzonte di pace, in occasione della 57esima edizione della Giornata Interris.it ha intervistato il fondatore del Servizio missionario giovani (Sermig) Ernesto Olivero.
Nel suo Messaggio per l’edizione di quest’anno, papa Francesco chiede che lo sviluppo tecnologico, precisamente le forme di intelligenza artificiale, serva la causa della pace e della fraternità e non accresca diseguaglianze e ingiustizie. Con quale spirito si può cominciare a “forgiare le spade in vomeri”?
“Nella nostra storia abbiamo imparato che il progresso tecnologico non è un male. Fu Giorgio Ceragioli, un docente di fama del Politecnico di Torino, innamorato dei temi dello sviluppo proprio attraverso la tecnologia, ad aprirci la mente. È grazie anche a lui che all’Arsenale della Pace è nato il gruppo della Restituzione tecnologica che ancora oggi unisce figure tecniche di ogni campo per trovare soluzioni concrete ai bisogni dei poveri. Ceragioli ci ha insegnato che gli strumenti non sono buoni né cattivi, dipende da come li usi. Credo che in questo ‘come’ ci si giochi la pace. Come uso i miei talenti? Come spendo il mio denaro? Come difendo i miei sogni? Come alimento i miei ideali? Come metto a disposizione il mio tempo, le mie capacità, le mie risorse? Come custodisco la mia fede? Come? La pace inizia da qui”.
Qual è la potenza della preghiera come uno strumento di pace?
“Senza preghiera non saremmo qui a parlare. L’ho capito dai primi passi nei ruderi del vecchio arsenale militare di Torino che ci era stato affidato. Il 2 agosto del 1983 davanti a noi c’erano solo mura annerite dal tempo e da un passato di morte. Oggettivamente entravamo in una sproporzione che secondo molti sarebbe stata la nostra tomba. Non so spiegarlo, ma io in modo misterioso vedevo l’Arsenale della Pace già fatto. Non ero un visionario, ma sentivo che quel luogo sarebbe stato lo spazio per vivere nel nostro piccolo la profezia di pace di Isaia. Sentivo che la nostra storia era guidata. Da quel momento la preghiera è diventata il nostro respiro: preghiera di affidamento, di gratitudine, di consolazione, di condivisione della gioia. Si sono uniti in tanti, anche non credenti, le persone di buona volontà che possono vivere la preghiera laica della rettitudine”.
Negli ultimi due anni il lessico della guerra, insieme alla sua tragica contabilità, è sempre più presente sui mezzi d’informazione, sui social e nell’opinione pubblica. Con quali parole si può parlare di pace?
“È vero, viviamo in un tempo armato anche nel linguaggio. Sembra quasi impossibile cogliere le sfumature, ragionare serenamente su questioni cruciali. Chiedendosi per esempio se esista un limite al diritto all’autodifesa o all’uso della forza. Sembra che chi parla di pace sia un ingenuo che avalla il nemico. Un tempo difficile e complicato, ma è il nostro tempo. Per rispondere alla sua domanda, dico che la pace non ha bisogno di parole nuove, perché la pace non è uno slogan da gridare nelle piazze o da declinare in un salotto televisivo. La pace, come l’amore, è un fatto che nasce dalle opere di giustizia. Cominciamo quindi a fare tutto il bene che può dipendere dalle nostre scelte, dai nostri sforzi, dalle nostre capacità. Il resto forse verrà…”.
La vostra struttura dà accoglienza a chi fugge da persecuzioni e conflitti. L’incontro genera pace?
“L’incontro può generare pace, ma richiede un metodo e anche una severità. Dobbiamo imparare prima di tutto noi a disarmarci, a smettere di idealizzare i poveri. Perché a volte i poveri disturbano, sono arroganti, non ricambiano il bene. Il povero perfetto vive solo nei nostri sogni. Chi è ferito ha un vissuto difficilissimo alle spalle, rabbie, dolori. Nostro compito è accettare di camminare insieme, di stare accanto, di esserci anche quando la risposta non è quella che ci aspetteremmo. Solo così la strada può aprirsi, facendoci scoprire una bellezza inimmaginabile”.
L’Arsenale della Pace ha da poco festeggiato i 40 anni. Quanta ne avete costruita di pace in questi quattro decenni, in Italia e all’estero, e quanto c’è ancora da fare?
“Guardandomi indietro, posso dire che non avremmo mai immaginato un cammino così. All’epoca eravamo davvero un gruppo molto giovane. Eravamo pochi, inesperti, ma con un sogno grande nel cuore di sconfiggere la fame nel mondo. Siamo partiti con questa disponibilità e strada facendo abbiamo visto i nostri piani cambiare. La colpa è stata del campanello che suonava, delle situazioni che si presentavano alla porta dell’Arsenale. Mai avrei immaginato di confrontarmi con ex terroristi che volevano cambiare vita, con donne che chiedevano aiuto per non abortire, con ragazzi schiacciati da dipendenze infami. Abbiamo accolto sempre quegli imprevisti e questa è stata la chiave che ha fatto crescere sia l’Arsenale che ognuno di noi. Parlare di pace per noi significa davvero camminare nella concretezza, non saprei definirla in altro modo. Molto è stato fatto, tantissimo resta ancora da fare, ma sono convinto che il male non avrà mai l’ultima parola. Quella ce l’ha il bene. Ognuno di noi può esserlo e alimentarlo”.