Le solennità natalizie che stiamo celebrando hanno un nome liturgico che provoca la nostra intelligenza e la nostra fede: sono le celebrazioni della manifestazione di Dio nella carne, manifestazione di Gesù ai magi. Sono tutte feste, appunto, di Epifania, di manifestazione. Ma perché provocano la nostra fede? Perché questa manifestazione di Dio turba la mia anima? Perché non sono immediatamente rincuorato ma, al contrario, il mio cuore si riempie di domande?
La mia esperienza di ascolto dei drammi delle persone e delle famiglie, il contatto con la storia concreta di uomini e donne solcata da profonde ferite, avere il privilegio di affacciarsi a quelle finestre dell’anima e leggere lo snodarsi dei flutti dei giorni, non mi preserva dal levare al cielo, a volte, le domande più forti e più urgenti. E, tra queste, la domanda fondamentale dell’essere umano: quella di vivere.
Occorre partire da questo senso di impotenza che ci inquieta o, a volte, ci intristisce per cercare piste di risposta, disegni in filigrana che mi dicano chi sono e chi sei Tu, mio Dio. Prendo spunto da una lirica di un autore tedesco: Heinrich Heine (1797 – 1856), ritenuto il più grande lirico tedesco dopo la generazione di Goethe. Di origini ebraiche, passò più tardi al cattolicesimo.
Sulla riva del mare
Deserto notturno,
sta un uomo. L’eterno fanciullo
dal petto ricolmo di ambascia,
dal cuore gravato dai dubbi,
con lugubre voce
interroga i flutti così:
“O flutti, scioglietemi voi
L’enigma crudele antichissimo,
che nomasi Vita;
l’enigma pe’l quale, da secoli,
invano il cervello si crucciano
dei tristi mortali
le tempie recinte di mitrie
istoriate, di nere
berrette, turbanti e parrucche:
l’enigma, sul quale,
grondando sudore, si curvano
a mille, da secoli, ansiose
le fronti mortali!
O flutti, svelatemi voi
L’essenza dell’uomo!
Onde viene? A qual mèta s’affanna?
O flutti, chi popola i mondi
Che brillano d’oro nel cielo?”.
Il mare bisbiglia
La sua sempiterna canzone;
fischia il vento; le nuvole corrono;
inesorabili e fredde,
le stelle sull’arco del cielo
risplendono; e un folle
attende il responso del mare.
Sono versi molto aspri, quasi sferzate di mare tempestoso sul nostro volto corrugato e pensoso. Sono versi che descrivono “un folle” sulla riva del mare della vita che attende una risposta, un’immagine che riecheggia domande più volte ripetute e a noi familiari di G. Leopardi: “Che vuol dir questa solitudine immensa? Ed io che sono?”.
Senza cedere al pessimismo devo dire però che è questo domandare incessante, ripetitivo, monocorde, che scuote le certezze e fa bruciar d’arsura le labbra febbricitanti del nostro essere “questuanti”, questo annusare il cielo per fiutare un refolo di speranza che percorra il nostro animo, la sola risposta al nostro domandare. E la domanda è quella di sempre: Sentinella a che punto è la notte? Come è fatta questa mia notte? (Isaia 21,11). E il cielo, che sembra srotolarsi per me, risponde con l’eco di un invito ancor più misterioso: Se volete domandare, domandate. Viene il giorno ma è ancora notte… (Isaia 21,12).
È il mistero dell’uomo impossibile da possedere ma che vorremmo toccare. E non c’è altra via da percorrere che quella dell’uomo stesso, del suo raccontarsi. Alla domanda fondamentale “chi sono?” “Chi sei?” l’unica risposta possibile è la narrazione di una trama di vita, che porta in sé la cifra di ogni movimento della soggettività. La storia dell’uomo in generale e quella di ogni singolo uomo è un progressivo svelarsi dell’uomo a sé stesso. Nella difficile arte del mestiere di uomo, si verifica un progressivo svelamento della sua verità. È il mistero di Dio che, pur racchiuso in un bambino, non si lascia possedere, non si lascia racchiudere e definire, perché supera ogni nostra pur ricca definizione.
I cercatori del “Re dei Giudei”, scrutatori del cielo, “uomini-domanda”, appassionati sprezzanti del rischio, (chiedono al Re Erode della nascita di un altro Re!!!) non temono il viaggio, l’assenza, il silenzio, la stanchezza, le sparizioni della stella, l’incertezza delle indicazioni ma cercano e domandano: “Dov’è colui che è nato, il Re dei giudei?”. Le tracce del “ricercato” compaiono e scompaiono, il Dio che cerchi si manifesta nell’assenza, nel desiderio che suscita in te di cercarlo ancora. Dio è già presente nella tua ricerca, nel dinamismo del tuo desiderio, nel ripetere all’infinito: “Ancora”.
Restiamo turbati quando scopriamo la “fragilità” dell’Onnipotenza di Dio, quando lo splendore della sua gloria si racchiude in un vagito, nei suoni senza parole di un “infante”. Sei tu il Dio che cerco o, nella mia immaginazione, cerco altro? Quando i Magi giungono alla presenza tenerissima del Bambino, fanno l’unica cosa degna dell’incontro con l’Atteso: «si prostrarono e lo adorarono” (Mt 2,11). C’è un momento in cui ci si arrende, e non ci rimane che inginocchiarci e adorare il mistero che ancora ci sfugge ma ci attrae e scalda il cuore.
Ma chi sono questi cercatori? Lontani dalla cerchia dei “predestinati”, provenienti da oltre frontiera, estranei al “popolo eletto”, sono il volto di un mondo che, in Cristo, non ha più periferie e barriere di ogni genere, sono semplicemente uomini, amati da Dio, destinatari di grazia e di benevolenza. Sono il volto anche di tante domande che salgono oggi dal cuore dell’umanità, dalla parte più sofferente del mondo e che occorre prendere sul serio.
Non prendere sul serio la dimensione “invocativa” della sofferenza significa privare l’uomo del senso del suo essere e togliergli la sua vera dignità che è quella di essere in relazione con gli altri e con l’Altro. L’uomo che soffre esiste come un grande “perché”, al quale egli non è idoneo a dare una risposta; il suo essere “domanda” (Factus sum mihi ipse magna quaestio, S. Agostino) lo indirizza all’Unico che può offrirgli una risposta perché si è fatto Lui stesso “domanda” che risuonerà per l’eternità nel cuore di Dio. “Sa soffrire solo chi si prende cura della verità del proprio essere. Solo lui pensa ed esiste sul serio”. Prendersi cura della totalità dell’essere umano, della persona anche quando non è in grado di relazionarsi e di comunicare con gli altri (ma non per questo perde la sua dignità), assumere il valore della sua sofferenza come “dono”, nel rispetto della sua libertà e nella ricerca del vero bene, è dare qualità (“qualità della vita”) al vivere umano e, per conseguenza, qualità anche morale alla società.
Mi piace notare che i magi, tra i doni, portano la mirra: balsamo amaro che strappa dalla sfiducia e dalla depressione, dall’apatia e dalla rassegnazione e stimola speranza di salvezza. Occorre invertire la rotta, come i magi, non seguire la seduzione della morte, ma cambiare strada e domandare ancora e sempre fino all’ultimo respiro, ad ogni angola della storia: “Dov’è colui che è nato, il Re dei giudei?”.
Così da poter dire il giorno dell’incontro definitivo: Ti ho cercato appassionatamente ma sei Tu che mi hai trovato perché mi hai inseguito delicatamente dall’Eternità. E quando ti ho incontrato Tu, Signore, ti sei manifestato a me e hai manifestato a me il mio vero essere, il senso della mia vita.
Il LOGOS si è fatto carne. Il SENSO si è fatto carne ed è venuto ad abitare in mezzo a noi. (Gv. 1)