Dietro la disabilità, molto spesso, oltre alle difficoltà quotidiane, ci sono storie di grande forza e di riscatto personale, sociale e professionale. Una di queste è senz’altro rappresentata dal dott. Francesco Curridori, che, in giovane età, ha subito un trapianto di cuore e ciò lo ha portato ad essere molte volte negli ospedali fin da piccolo. Tutto ciò però, non gli ha impedito di vivere e, grazie alla sua grande passione per il giornalismo, oggi è un affermato professionista dell’informazione e collaboratore del quotidiano “Il Giornale”. Recentemente ha pubblicato il libro autobiografico, “Nato all’incontrario“, edito da Koinè. Interris.it lo ha intervistato in merito alla sua opera letteraria e all’importanza dell’inclusione concreta e fattiva e delle persone con disabilità nella società.
L’intervista
Dott. Curridori recentemente ha dato alle stampe il libro “Nato all’incontrario”. Che messaggio ha voluto lanciare?
“Nel mio libro ‘Nato all’incontrario’ ho voluto dire che, la disabilità, non inizia e non finisce in un letto di ospedale. Spesso si dice ‘se c’è la salute c’è tutto’ ma non è così perché, dato che io, fin dalla nascita non ne ho mai avuta, allora non avrei niente. Ci sono invece molte altre cose da salvare infatti, il mio libro, non è una cartella clinica, ma è il racconto di una vita vissuta, cercando di non lasciare che, un ictus, un trapianto di cuore o una frattura di un femore, in qualche modo, interrompessero il mio cammino. Sono invece stati degli avvenimenti che mi sono accaduti, ma hanno solo rallentato il mio percorso”.
Il giornalismo è una sua grande passione. Come si è avvicinato a questa professione? In che modo, secondo lei, il giornalismo, può generare inclusione per le persone con disabilità?
“A prescindere dal giornalismo, per ogni cosa, è importante essere disabile ma non apparire tale. Non ho bisogno di ostentare la mia disabilità, ho deciso di fare giornalismo senza occuparmi necessariamente di temi sociali ad essa legati. Ho scritto un libro sulla mia vita perché molti me lo chiedevano e perché, da trapiantato di cuore, ho visto morire molti altri trapiantati e, la mia esistenza, è appesa a un filo più di quella di molti altri. In altre parole, qualsiasi virus, anche meno impattante del Covid – 19, può essere letale per me. La passione per il giornalismo è sorta in me fin da piccolo, guardando le trasmissioni politiche insieme a mio padre all’epoca di Tangentopoli. Ero molto affascinato dalla figura di Silvio Berlusconi che, sia che lo si ami o no, entra dentro. Fin da 13 anni ho avuto la passione per la scrittura, ero bravo nei temi e, più avanti, ho intrapreso questa strada”.
Che messaggio vorrebbe lanciare a una persona con disabilità che sta leggendo il suo libro e, in questo momento, ha bisogno di un’iniezione di coraggio per superare le proprie difficoltà? Quali sono, a suo parere, le problematiche diffuse e gli ostacoli che, ad oggi, si possono incontrare nella quotidianità?
“Gli direi che, la disabilità, non inizia e non finisce in un letto di ospedale e che, anche senza salute, la vita non è un fallimento. Nel libro scrivo del mio lavoro, dei miei amici, di chi mi ha spezzato il cuore e faccio anche alcune considerazioni di carattere politico-sociale. Mi schiero abbastanza contro il politicamente corretto: oggi c’è quest’idea che, siccome si è disabili, ci si deve in un certo senso, accontentare. Bisogna invece ispirare al meglio. C’è poi un altro stereotipo che mi infastidisce: se si è disabili e giornalisti allora si dovrebbe scrivere di disabilità, temi sociali oppure si dovrebbero compiere delle rivendicazioni in tal senso. Sia chiaro: ci sono delle cose che io rivendico, ma non sono dei diritti aggiuntivi. A me basterebbe che, a Roma e negli altri luoghi, si abbattessero realmente le barriere architettoniche. Mi da enormemente fastidio che, negli ultimi quarant’anni, si è passati dal definire le persone con disabilità da ‘handicappati’ a ‘diversamente abili’ e via dicendo. Questa per me è una grande stupidaggine. Fare una battaglia linguistica su questi temi è politicamente corretto ma non cambia la vita, occorre agire sulle cose pratiche. Nel 2025, ad esempio, si terrà il Giubileo, a Roma sono stati aperti 130 cantieri, tra cui quello per l’ampliamento della metro con zone già collegate da altre oppure da autobus di superficie. Ben sette eventi però, in occasione del Giubileo, si terranno a Tor Vergata e, attualmente, non c’è una metro che lascia davanti all’università e al policlinico omonimo, oppure allo Spallanzani e al Sant’Andrea. Non capisco tutto ciò quando, ad oggi, mancano i servizi essenziali. Tutta la metro A, ad esempio, risale agli anni ’80, è stata chiusa per un anno e mezzo dalle 9 di sera in poi per fare i lavori di ammodernamento ma, nel frattempo, avrebbero dovuto stanziare i fondi per un ascensore che, al momento, non c’è ma permane solo un montascale il quale, per essere attivato, ha bisogno della chiave custodita da un dipendente. Siamo nel 2024 e si continuano a fare delle questioni relative alle parole con cui definire le persone con disabilità ma poi, in riguardo all’abbattimento delle barriere architettoniche, siamo messi molto male. Questo mi dà molto fastidio. Se si vuole arrivare all’inclusione, anziché chiedere un linguaggio diverso, occorrerebbe concentrarsi su altri aspetti. La legge 68 del ’99, ad esempio, da delle agevolazioni alle aziende che assumono delle persone con disabilità però, ad oggi, molti di loro, vengono chiamati, per lo più, per fare gli impiegati ma, per altre professioni, non è così. L’unico politico con disabilità diventato ministro nella storia d’Italia è stato Antonio Guidi nel 1994 e il ministero delle Disabilità è nato solo recentemente con i governi di centro destra. Il punto è che, personalmente, non ho bisogno di rivendicare ogni giorno il fatto di essere disabile. È più importante fare il giornalista politico ed essere preso sul serio quando parlo di politica, rispetto al disquisire perennemente della disabilità e di temi speciali perché, a quel punto, non sarei più un giornalista politico che ha una disabilità, ma una persona con disabilità che parla di disabilità. L’inclusione sarà reale ad esempio quando, una persona affetta da una tetraparesi spastica, diventerà giudice della Corte Costituzionale. Non è necessario fare le quote, ma è importante metterci in condizione di diventare giudice della Corte Costituzionale, ovvero abbattere le barriere architettoniche, dare un’assistenza domiciliare reale perché, ad esempio, a percezione mia, la legge sul ‘Dopo di Noi’, non è stata pienamente attuata. Se non si stanziano fondi adeguati e non si dà un futuro alle persone con disabilità, cosa succederà quando i familiari vengono a mancare? L’inclusione deve partire dall’infanzia, insieme agli altri bambini. Bisogna uscire dal politicamente corretto che è deleterio, non siamo tutti uguali. Ognuno ha delle caratteristiche di unicità che devono essere valorizzate”.