Quasi un dipinto, talmente bello era il sorriso. Il ricordo meglio di qualsiasi fotografia. Paolo Rossi è stato grande perché semplice. Italianissimo come il suo nome. Anzi, a pensarci bene non poteva essere che un “Paolo Rossi” a prendere per mano un Paese che veniva fuori dall’incubo del terrorismo e dalla sciagura del terremoto dell’Irpinia. A colpi di istinto, come i tre gol rifilati al Brasile di Zico, Junior e Falcao. Di tenacia, come la zampata che indirizzò la finale contro la Germania.
Fotogrammi di un’epopea irripetibile, forse l’unica in grado di spiegare davvero la quintessenza del calcio. Uno sport che non è solo sport. Perché tutti, chi più chi meno, avremmo voluto sentirci Paolo Rossi. Anche chi non c’era. Il più comune dei nomi per l’impresa più gloriosa: dare al Paese una ragione per festeggiare. Unito come forse aveva dimenticato di saper essere. Un momento bello da vivere ma anche da raccontare, come ricordano a Interris.it gli storici cronisti Riccardo Cucchi e Bruno Pizzul.
Riccardo Cucchi: “Paolo Rossi? L’Achille contemporaneo”
In Paolo Rossi possiamo leggere qualcosa di più di un semplice atleta: l’incarnazione di uno spirito italiano che sembrava essersi perso e che coinvolge anche chi racconta…
“Sono convinto che lo sport possa essere considerato alla pari dell’epica antica, quella di Omero. Che avevano bisogno però di uomini diversi da trasformare in miti, uomini che combattevano sanguinose battaglie. Per fortuna non abbiamo più bisogno di quel tipo di eroi. Io credo che lo sport sia stato, nell’epoca contemporanea, l’elemento sul quale è stato possibile costruire un’epica. Naturalmente per fare questo ci vuole un uomo con caratteristiche speciali, un atleta che, attraverso gli occhi di colui che lo vede, la penna o la voce di colui che lo racconta, diventa poi, nell’immaginario collettivo, un piccolo eroe. Diventa sostanzialmente l’Achille dell’era contemporanea. Sono convinto che sia un processo analogo ma, perché questo avvenga, ci vogliono personaggi con caratteristiche particolari. Alla fine, ciò che sorprende tutti, è il fatto che un uomo come noi sia capace di fare qualcosa che non noi siamo in grado di fare. Paolo Rossi, così come Maradona, rientra in questo modello”.
Paolo Rossi, un nome così comune che non facciamo fatica a identificarci in lui. In quei momenti avremmo voluto tutti chiamarci così…
“Chi non ha mai sognato, da ragazzino, di fare scorribande su un campo di calcio? Seminare avversari come Maradona, arrivare in porta e segnare… E’ il sogno che tutti noi abbiamo coltivato, illusi dalle immagini che vedevamo. Ognuno di noi, anche io. Anche chi, come me, poi ha fatto altro perché non è stato capace di fare il calciatore. In qualche modo la nostra fantasia è stata alimentata e l’abbiamo trasferita sui calciatori, su Paolo Rossi in particolare. Quale cognome meglio di Rossi identifica l’italianità? Credo che Paolo sia stato tanto amato perché lo abbiamo sentito italiano come noi. Italiano non solo per il cognome, esemplificativo per l’assonanza di nomi italiani”.
Cos’altro c’era?
“Paolo rappresentava il tipico giocatore italiano. Le sue caratteristiche lo rendevano davvero simile a tutti noi, per questo lo abbiamo amato, considerandolo normale. Sbagliando, perché era più bravo di molti di noi. La sua velocità, la sua astuzia, la sua furbizia, la capacità di anticipare l’avversario, sono caratteristiche che noi italiani amiamo molto. Paolo non era forte fisicamente, era minuto ma di fronte ad altri attaccanti sapeva fare la differenza. A volte tendiamo a sminuire il nostro valore ma ci piace superare quello che è considerato il più forte essendo noi stessi, ricorrendo perché no all’astuzia”.
Un Inzaghi, per dirne uno, in anticipo sui tempi…
“Esatto. Da un punto di vista tecnico Paolo Rossi ha anticipato l’evoluzione del centravanti. Prima di lui erano considerati alti, robusti, lui non era così. E devo dire che, da quel momento ne abbiamo visti tanti di attaccanti così. Penso alla Spagna campione del mondo…”.
L’Italia vince il Mondiale nel 1982, due anni dopo la strage di Bologna. Il Paese torna a unirsi anche grazie al trionfo della Nazionale.
“Sono d’accordo. Io ho vissuto quegli anni, molto difficili, in cui abbiamo rischiato di disgregarci. Il terrorismo, le lotte politiche avvelenate, il Paese faceva fatica a riconoscersi. Devo dire che quei fattori che hanno contribuito a farci sentire di nuovo comunità italiana sono legati a tre elementi: il primo Paolo Rossi, soprattutto i suoi tre gol al Brasile. Sappiamo quanto sia ancora una ferita lacerante per i brasiliani, che sembravano destinati a giocarsi la finale; il secondo è stato il riscatto della nostra Nazionale, criticata ferocemente dopo la fase a gironi, addirittura molti volevano già la testa di Bearzot. Il riscatto della squadra ci ha rimessi insieme”.
E il terzo elemento?
“Mi permetto di ricordare il Presidente della Repubblica, Sandro Pertini. Indimenticabile. La finale contro la Germania, la sua partecipazione emotiva, quel piccolo uomo che impersonava in maniera straordinaria il passato, come partigiano, e anche l’italiano moderno, che si faceva prendere la mano da una partita di calcio. Ricordo la mimica, si leggevano le labbra, quando si rivolse al re Juan Carlos dicendo ‘Non ci riprendono più’ dopo il terzo gol, come un qualsiasi tifoso. Io credo che questi tre elementi abbiano costituito un corroborante straordinario per farci sentire di nuovo Paese, di nuovo italiani. E non è un caso che dopo quella partita si rividero scene che avevamo vissuto nel ’70, dopo il 4-3 alla Germania. Gente in strada per celebrare una vittoria. Il calcio non è solo un gioco, significa molte altre cose”.
Magari un’Italia che si riscopre capace di scendere in piazza non per dar sfogo a politica e violenza, ma per festeggiare insieme…
“Esattamente, la gente era scesa in piazza non per manifestare, non preoccupata e impaurita ma per gioire per una squadra che aveva appena vinto il Mondiale. Con Paolo Rossi protagonista assoluto”.
Bruno Pizzul: “All’estero eravamo tutti Paolo Rossi…”
Bruno Pizzul, la memoria fatta di immagini è certamente importante ma il racconto contribuisce a immortalare nella storia dei momenti che, altrimenti, vivremmo senza suoni capaci di ricordarli…
“Indubbiamente la partecipazione anche attraverso il commento, soprattutto per quanto riguarda quello che secondo me è uno dei valori fondamentali dello sport, cioè la capacità di trasmettere emozioni. E se l’emozione principale deriva dalla prestazione, dalla bravura e dal talento del calciatore, anche la qualità del racconto ha la sua importanza. Mi sento di poter dire che ci sono dei giocatori che si impongono in maniera prepotente con la loro capacità e sensibilità anche umana direi, fermo restando che non sempre il comportamento dei giocatori, anche quelli di grande nome, è consono a quelli che dovrebbero essere i dettami sul piano della correttezza”.
Paolo Rossi di sensibilità umana ne aveva tanta…
“Direi che la testimonianza più evidente di quanto la gente gli volesse bene si è avuta in questi giorni: la commozione, il cordoglio, la partecipazione al lutto della famiglia è stato veramente notevole. Singolare che si siano aggiunti l’uno all’altro due lutti relativi a due grandissimi del calcio. Di Paolo, in qualche modo, va sottolineata la caratura umana. Lui ha avuto momenti difficili in carriera, una squalifica a proposito della quale non c’è mai stata grande chiarezza. Ma nel suo modo di comportarsi c’è stata la disponibilità al dialogo, l’apertura al prossimo. Tant’è vero che in tutte le immagini che ci sono state proposte in questi giorni, non c’è un’immagine in cui non ci sia il suo sorriso. A testimonianza di come avesse questa disponibilità al contatto umano, questa simpatia spontanea che lo ha reso gradito a tutti. Inutile dire che per lui l’epopea dei Mondiali di Spagna è stato un momento particolarmente importante”.
Un italiano che riesce a imporsi contro il Brasile dei fenomeni. In quel momento, forse, il simbolo del riscatto di un Paese che aveva attraversato forse il suo periodo più duro…
“Sicuramente. Anche, appunto, per le particolarità del momento socio-economico e culturale che attraversavamo. L’esibizione al Mondiale è diventata una specie di parabola rapportabile all’intero popolo italiano, tant’è vero che anche all’estero è stato individuato come la forza, la simpatia e la creatività dell’Italia. Quando gli italiani venivano ‘scovati’ all’estero erano subito indicati come ‘Paolo Rossi’. A testimonianza che in quel momento ha rappresentato qualcosa di unico per il Paese intero, che stava uscendo da un momento particolarmente difficile, anche se c’erano condizioni tali che consentivano una visione ottimistica del futuro”.
L’Italia si riscopriva in quel momento capace di unirsi?
“Ricordo che la meraviglia generale riguardava il numero spropositato e inatteso di bandiere tricolori che palesava il nostro Paese. Si era persa l’abitudine di celebrare attraverso l’esposizione della bandiera qualche evento memorabile. Quella vittoria e il modo in cui fu conseguita, facilitarono questo senso di unificazione e orgoglio nazionale”.
Secondo lei la presenza di Pertini, che tornò con gli Azzurri, contribuì a identificare la rinascita del Paese nella Nazionale, in un connubio fra sport e società?
“Sì, anche perché la figura di Pertini, a parte la sua simpatia e la capacità di immergersi nel popolo, ha continuato ad assumere un rilievo particolare anche nelle feroci circostanze con le quali ha dovuto misurarsi. E Pertini uscì in maniera straordinaria sul piano personale. A parte Paolo Rossi, anche Bearzot ebbe un’importanza fondamentale, con la sua capacità, la sua testardaggine con la sua capacità di far amalgamare i giocatori e far creare questo senso del gruppo anche in momenti in cui sembrava sfuggire di mano la situazione. E’ stata una parantesi veramente unica, nella quale Paolo Rossi viene giustamente considerato uno dei fattori principali”.