Nella vita accade che un percorso su cui un individuo indirizza il proprio cammino si svolga, contemporaneamente, su due livelli. Uno interno, privato, intimo. L’altro esterno, pubblico, comune. Ciò può avvenire quando questo percorso conduce a una ricomposizione con il proprio passato, con la propria storia, che in parte o in (quasi) tutto coincide con la storia della collettività dove l’individuo vive. “La storia siamo noi”, cantava Francesco De Gregori, “siamo noi padri e figli”. Ed una storia di un padre e di un figlio è questo percorso, ma insieme è anche la storia di altri padri e altri figli, e anche parte della storia recente del nostro Paese. Una storia segnata dal lutto personale, familiare e collettivo che attraverso un percorso di anni, passando per il dolore e per la volontà di mantenere viva la memoria, porta le ferite a smettere di sanguinare e la rabbia a fare spazio alla riconciliazione. Un percorso che esige il prezzo del tempo che deve trascorrere e la volontà, da parte chi ha preso parte a quella finestra della storia, di fare a sua volta il proprio percorso, nella direzione dell’altro.
Padre e figlio
Questa è la storia di un figlio che mantiene in vita il ricordo di suo padre, i suoi sorrisi e la sua ironia, e non lo ha fatto diventare un fantasma di cui si ricorda solo la data del decesso. Quel figlio si chiama Giovanni Ricci, oggi cinquantenne, una laurea in Sociologia e un master in Criminologia, un grande impegno per andare nelle scuole a raccontare e spiegare la storia, il ricordo e la memoria degli anni in cui l’Italia è stata attraversata e segnata dagli opposti estremismi, dalla lotta armata e dal terrorismo, e di tutti i caduti in quel periodo della nostra storia. Tra questi c’è suo padre, l’appuntato dei carabinieri Domenico Ricci, uomo della scorta del presidente del Consiglio nazionale della Democrazia cristiana Aldo Moro alla guida della Fiat 130, anche lui ucciso in via Fani la mattina del 16 marzo 1978. Un uomo nato nelle Marche e cresciuto lavorando la terra, prima di entrare nell’Arma dei carabinieri. Un tratto della sua storia che lo accomunava a tre degli altri quattro uomini della scorta di Moro, gli agenti di polizia Francesco Zizzi, Giulio Rivera e Raffaele Iozzino. “Storie comuni di gente che lavorava terra per aiutare le proprie famiglie. Esempi di chi non veniva da una famiglia arricchita”, ha detto di loro a In Terris Giovanni Ricci. Suo padre, continua Ricci, “era orgoglioso di aver avuto la fortuna di realizzarsi nella vita, lui un umile contadino delle Marche, e dare prestigio alla sua famiglia”.
Un padre che gli è stato tolto con sette colpi di arma da fuoco dal terrorismo quando Giovanni non aveva ancora compiuto 12 anni. C’è voluto molto tempo per riconciliarsi con la perdita, gli studi all’università per capire cos’erano stati gli anni di piombo, il percorso intrapreso per non farsi trascinare a fondo dalla rete della rabbia e della voglia di vendetta nei confronti di chi aveva ucciso il suo genitore, fino all’incontro con alcuni di coloro che presero parte all’agguato in via Fani. “Un progetto di giustizia riparativa”, lo definisce Ricci, “che ti mette in condizioni di parità e ti aiuta a fare un percorso di riavvicinamento, dove chi ha sbagliato deve volere questo riavvicinamento, chiedendo lui il perdono”. Fino ad arrivare all’oggi, con l’Associazione Domenico Ricci (fondata nel 2015), e l’inaugurazione del primo muro della memoria per le vittime del terrorismo e delle stragi, avvenuta lo scorso 18 settembre a Staffolo (Ancona), luogo natio di Domenico, voluto insieme al primo cittadino Sauro Ragni. 381 nomi di persone uccise tra il 1962 e il 2003, otto metri su otto lapidi con un Qrcode che consente di conoscere le storie di ciascuno di loro, estratte dal libro Per le vittime del terrorismo nell’Italia repubblicana del 2008, voluto dall’allora presidente della Repubblica Giorgio Napolitano in occasione del primo Giorno della memoria per ricordare le vittime del terrorismo e delle stragi il 9 maggio 2008 (a quarant’anni dal ritrovamento in una Renault del corpo senza vita di Moro, in via Caetani a Roma), e un monumento che rappresenta un muro spaccato sulla cui fenditura cresce una pianta di vite – simbolo della rigenerazione – e un orologio che segna le 9:05. Ciò che è stato non va dimenticato, deve continuare a vivere nel presente e nel futuro.
Il muro e il monumento
“Abbiamo gettato un piccolo seme e dimostrato che anche una piccola realtà come Staffolo può partecipare nel fare memoria”, commenta Ricci a proposito dell’iniziativa realizzata nel comune in provincia di Ancona. Racconta poi come negli anni tra 2012 e il 2018 si sia lì organizzata annualmente una giornata in ricordo di suo padre Domenico, originario del luogo, a cui hanno partecipato Agnese Moro, figlia dell’ex presidente democristiano, Gherardo Colombo, magistrato che ha condotto importanti inchieste nella storia italiana recente, Manlio Milani, presidente dell’Associazione familiari dei caduti della strage di Piazza della Loggia a Brescia, Paolo Silva, vicepresidente dell’Associazione dei familiari delle vittime della strage di Piazza Fontana. L’idea di un monumento alla memoria di tutte le vittime inizia a circolare già nel 2013, nei colloqui tra Ricci e “il sindaco Mauro Ragni, con cui ci conosciamo da una vita” e grazie al suggerimento del cittadino staffolano Franco Costarelli. Otto lapidi con 381 nomi e un monumento, realizzato dal professor Massimo Ippoliti del liceo artistico “Edgardo Mannucci” di Jesi con la collaborazione di un gruppo di studenti. All’inaugurazione era presente anche Laura Apolloni, superstite della strage al locale parigino Bataclan del 13 novembre 2015. “E’ il primo muro in Italia per la memoria delle vittime del terrorismo. Qui si ricordano anche i ragazzi morti, quelli uccisi per errore. Si rende una persone tangibile, non più un fantasma”, spiega Ricci.
Domenico Ricci, l’uomo
I ricordi di suo padre descrivono un genitore spesso fuori casa per ragioni di servizio – la scorta di Aldo Moro – ma non per questo assente, anzi premuroso con i suoi figli e attento alla loro educazione, a scuola e in casa. “Lavorava 365 giorni all’anno per il presidente Moro, doveva seguirlo ovunque andasse” – i pochi momenti insieme assumevano allora un che di festivo, di gioioso – “ma ogni 6 gennaio riusciva a essere a casa dei nonni e su una vecchia stufa a legna appendeva le calze per mia madre, mio fratello e me. Era il giorno più bello dell’intero anno e, felicissimo, non vedevo l’ora di scartare i regali che ci aveva portato”, racconta Ricci.
Due sono le caratteristiche che emergono, dal ritratto che il figlio fa del padre: le origini contadine, mai dimenticate, e l’entusiasmo per il proprio lavoro da carabiniere. “Sul suo foglio matricolare”, continua Ricci, “alla voce professione c’era scritto “colono”, perché fin da bambino lavorava la terra in una famiglia numerosa che ha sempre amato. Anche dopo essersi arruolato, non ha interrotto il suo rapporto con la campagna. Nostro nonno materno lavorava a Ostia e all’epoca c’era l’abitudine di farsi dei piccoli orticelli in campagna, così capitava che nostro padre trascorresse alcune domeniche a fare i lavori nei campi”.
Sono però la divisa e l’essere al fianco di un politico di tale rango, a costo di grandi rinunce nella propria vita privata, a far sentire Domenico Ricci una persona realizzata nella vita. “Era entusiasta di essere un carabiniere e di lavorare per una figura che è stata padre costituente, ministro e presidente del consiglio, ed era orgoglioso di aver realizzato il sogno della sua vita e di dare prestigio alla propria famiglia”. Una storia, quella dell’appuntato Domenico Ricci, molto simile a quelle di altri uomini della scorta del presidente Moro. Con tre di loro, anche se agenti di polizia, condivideva infatti le radici contadine. “Il vicebrigadiere Francesco Zizzi, di Fasano di Puglia, Giulio Rivera, molisano di Guglionesi, e Raffele Iozzino, l’unico che fece in tempo a scendere dalla macchina, prima di essere raggiunto da 17 colpi. Storie comuni, di lavoro nei campi per aiutare le famiglie”. L’altro carabiniere era il caposcorta, il maresciallo Oreste Leonardi. “Con le famiglie degli eredi ci teniamo in contatto e ci scambiamo idee”, aggiunge Ricci, “ho fondato l’Associazione Domenico Ricci non per ricordare solo mio padre, ma tutti i caduti di via Fani”.
Ricordo di allora, ricordo di oggi
Via Fani, 9:05 di giovedì 16 marzo 1978. Una data che lascia un segno indelebile nella storia del nostro Paese e nella storia della famiglia Ricci, di Giovanni. Aveva 11 anni, ne compiva 12 ad aprile, e quella mattina non era a scuola perché all’epoca si facevano i doppi turni, chi la mattina e chi il pomeriggio, e quel giorno gli spettava il secondo. Si trovava a casa quando cominciarono ad arrivare, dapprima incerti, brandelli di informazioni, sotto diverse forme. La prima è stata una “strana telefonata” alle 9:30 da parte di un’amica della madre che chiedeva se Domenico Ricci quella mattina fosse di servizio. Poi chi suonava al campanello dell’appartamento per chiedere “come va?”. Finché non è arrivata la notizia che “alla radio hanno detto che sembra abbiano rapito il presidente Moro”. Di fronte alla televisione accesa, il piccolo Giovanni vede al telegiornale “il corpo di mio padre, lo riconobbi dall’orologio che scandiva le sue ore, uno Zenith. L’unico dono che si era fatto in una vita di sacrifici”. C’è stato pure un tempo, breve, di speranza che si fosse salvato: “Si era parlato di un ferito portato al Gemelli”. Ma “alle 13 un generale carabinieri ci disse che erano tutti morti”, conclude Ricci. Nel corso di quella giornata di lutto e dolore, qualcuno ha dimenticato in casa loro una copia dell’edizione straordinaria di Repubblica e “a pagina 2 vedo l’immagine di mio padre, non coperto da un lenzuolo, ucciso con sette proiettili che lo hanno raggiunto tra la testa e il collo”, racconta. Ripensare a quei momenti è doloroso, ma anni dopo Giovanni Ricci ha dimostrato che il dolore e la rabbia non hanno vinto, dando una sostanza diversa alla memoria, la sua e quella collettiva. “Ero stanco venisse ricordato solo il giorno della morte , avevamo perso il senso del ricordo. Allora ho cominciato a scavare dentro me stesso e sono andato a recuperare i ricordi per ridare forma alla storia di una famiglia”.
Le domande degli studenti
Una tragedia, oltre a infliggere un colpo sul momento, può avere una coda lunga di difficoltà e conflitti, interni ed esterni. La via della riconciliazione con sé e con il mondo ha un tempo e uno spazio tutti suoi. “La prima cosa che ho provato è stata la differenza dagli altri. A scuola si parlava di quello che era successo, io cercavo di avere un rapporto amichevole, ma vedevo la difficoltà altrui a parlare con me. Mi sentivo diverso”. Durante gli anni dell’adolescenza – “il periodo più difficile della mia vita”, lo definisce Ricci – ecco che dalla ferita aperta quel 16 marzo 1978 escono “odio e rabbia nei confronti di queste persone che avevano ucciso mio padre”. La vita continua, prima gli studi universitari alla Sapienza – “ho studiato Sociologia per capire il pensiero di allora, gli opposti estremismi, le uccisioni di giovani perché erano di destra o di sinistra” – , poi il matrimonio e infine la nascita di un figlio, che porta il nome del nonno mai conosciuto. Da qui Ricci si mette in cammino verso la riconciliazione, prima di tutto con sé stesso. “Mi sono detto che invece di provare un senso di rabbia ogni mattina, sarei dovuto riuscire a metterla da parte. Allora ho cominciato la ricerca della radici e della memoria della mia famiglia. Alla fine non ho voluto vendetta, ma la volontà di onorare mio padre e non farlo diventare un fantasma – sono tantissimi i caduti di cui nessuno conosce l’identità, la storia”. Così, “con la mia e le altre associazioni abbiamo fatto tavolo tecnico al Miur” per andare nelle scuole a raccontare cos’era il terrorismo. Un impegno che viene ripagato. “Vedo che la voglia di conoscere c’è. I ragazzi vogliono sapere, chiedono e cercano di ampliare il discorso. Dopo un primo momento che magari sono un po’ titubanti cominciano a essere interessati e cala il silenzio più assoluto. Poi ti circondano per fare ancora nuove domande”, spiega Ricci.
Riconciliarsi con il passato
Se il cammino sul sentiero della memoria ha riconsegnato a Giovanni Ricci suo padre Domenico e l’ha portato a prodigarsi nella meritoria opera di parlare ai più giovani della recente storia d’Italia, “lungo e periglioso” (parole dello stesso Ricci) è stato quel percorso d’incontro che ha portato le ferite a non sanguinare più, a non essere più trascinato a fondo dalla rete della rabbia. Un percorso che è un processo liberatorio.
Perché l’incontro è stato con alcuni di quei brigatisti che erano in via Fani, Valerio Morucci e Franco Bonisoli. Ma non solo loro, anche Adriana Faranda, che lì non c’era lì, e altre figure di quel periodo come Enrico Balducchi, colui che – dopo la scelta di chiudere la stagione della lotta armata – con una lettera avrebbe preannunciato al cardinale Carlo Maria Martini la consegna delle ultime armi rimaste alla sua organizzazione. Cosa che avvenne il 13 giugno 1984, nella sede dell’arcivescovado di Milano.
“Sì è cominciato con delle lettere, con dei mediatori, secondo un progetto di giustizia riparativa”, spiega Ricci. Un approccio che “mette in condizioni di parità e concilia il riavvicinamento con chi ha sbagliato”. A quest’ultimo spetta di riconoscere ciò che ha commesso, accettando il riavvicinamento “chiedendo lui il perdono”, continua Ricci.
Questo processo fa del bene anche alla vittima, che riesce a cambiare il suo sguardo sulla persona che ha commesso quello sbaglio, liberandosi. “Mi ha aiutato ad uscire da quella rete che mi aveva lasciato le cicatrici sul corpo e mi trascinava sul fondo, ho imparato a guardare chi chiede perdono per le azioni commesse come un uomo che ha sbagliato”, illustra Ricci. “Durante un nostro incontro ho detto a Valerio Morucci che le mie cicatrici si sono chiuse”.