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Mediterraneo, l’allarme dell’esperto: “Due fattori stanno decidendo il futuro”

Tra clima che cambia e popoli che ne risentono, il Mediterraneo appare come uno specchio sul futuro. Provenzale (Cnr): "La gestione del territorio richiede maggior attenzione"

Da crocevia di culture a luogo nel quale leggere il futuro. Il bacino del Mar Mediterraneo, oggi come ieri, è al centro del dibattito globale. Tuttavia, se in passato il mare nostrum rappresentava, nella sofferenza dello scontro tra popoli, un’area di incontro, confronto e, alla lunga, arricchimento reciproco, oggi è il suo ambiente a offrire una chiave di lettura per ciò che riserverà il domani. Qui, più che in ogni altra area del Pianeta, gli effetti dei cambiamenti climatici si manifestano con più evidenza. Sia per l’alterazione del clima tipico dell’area mediterranea, sia per il forte contributo dell’antropizzazione. Una combinazione che, peraltro, non mostrerà le sue conseguenze da qui a qualche generazione. Come spiegato a Interris.it da Antonello Provenzale, direttore del Consiglio Nazionale delle Ricerche (Cnr), gli impatti reali saranno visibili già entro i prossimi anni.

 

Dottor Provenzale, il bacino del Mediterraneo sembra assorbire gli effetti dei cambiamenti climatici in modo più evidente. C’è una combinazione maggiore con il fattore dell’antropizzazione?

“Il Mediterraneo è più sensibile, perché al limite tra due tipi di circolazione: quella africana e quella europea. Per quello che si osserva in tutto il bacino, c’è una tendenza alla siccità. Mentre nel Nord Europa si vede un aumento delle precipitazioni medie negli ultimi 30-40 anni, nel Mediterraneo c’è una netta diminuzione, con un aumento delle temperature che favorisce la perdita di acqua dal suolo. L’insieme delle due cose comporta una tendenza verso un suolo più secco e siccità. Abbiamo quindi due grandi rischi”.

Ovvero?

“Da una parte questa evidente tendenza, visibilissima nell’Italia meridionale – e quindi il fattore che preoccupa di più -. Dall’altra il fatto che le precipitazioni tendono a essere molto concentrate, più intense in determinati periodi. Siamo quindi esposti a queste due facce del cambiamento del ciclo dell’acqua. Senza contare una diminuzione molto forte della nevosità nelle aree montane. Questo è il quadro che si è delineato e che, secondo le previsioni, continuerà anche in futuro”.

Viviamo quindi un avvicendamento climatico?

“Quando piove, lo fa con maggiore intensità. Quando non piove, il periodo senza acqua può durare talmente tanto da provocare siccità. Ma ci sono altre cose difficili da gestire: abbiamo avuto un anno, come il 2022, estremamente siccitoso. Poi un altro, come questo, con abbondanza di precipitazioni. È quindi difficile calibrare la gestione delle risorse idriche con questa forte variabilità. Altro elemento importante è che l’aumento della siccità comporta un maggiore rischio di aree bruciate”.

Parliamo quindi di incendi. Il Mediterraneo, in tal senso, ha patito gravi difficoltà…

“Gli incendi mediterranei sono tutti di origine umana. Ma l’estensione dipende dalle condizioni climatiche. Molto sottobosco secco, può provocare i cosiddetti ‘mega-incendi’. Qui entra in gioco l’antropizzazione, perché il Mediterraneo è super abitato dovunque. Gli incendi hanno effetti immediati sulle infrastrutture e le persone. Le siccità, d’altro canto, hanno un impatto molto serio sulla produzione agricola. Siamo quindi esposti a cambiamenti repentini e anche più difficili da prevedere”.

Il fattore prevenzione può aiutare a gestioni di emergenza ma l’estremizzazione degli eventi impone di riadattare meccanismi acquisiti. Potrebbe essere un altro fattore deleterio per una zona abituata a un clima mite?

“Quasi in tutte le regioni del Mediterraneo, l’area bruciata degli ultimi trent’anni è diminuita nonostante l’aumento di condizioni siccitose. Questo perché sono molto migliorate tecniche di prevenzione, previsione e rilevamento satellitare. Queste tecniche rischiano di non essere sufficienti se aumentano le condizioni siccitose. Bisogna aumentare la capacità di previsione stagionale. Tutto sommato interessa meno capire cosa succederà tra 50 anni, almeno a livello concettuale. Riuscire a prevedere come sarà l’estate o l’inverno, quali saranno gli effetti al suolo, sulle falde o sui raccolti, questo tempo scala attorno a qualche mese e fino all’anno, è quello su cui si sta lavorando di più perché quello che ha forse le implicazioni maggiori sulla capacità di gestire nel breve periodo”.

In effetti, a livello europeo ci si era dati delle scadenze per mettere in atto delle strategie preventive, ma si è capito che ragionare a lunghissimo termine è quasi riduttivo rispetto alla velocità con cui si manifesta il problema…

“Vediamo due cose che si combinano in modo non positivo: da una parte una grande lentezza della società globale nel passare a energia a bassa emissione di gas serra. Il che non vuol dire che non si facciano progressi: basti vedere come gli Emirati Arabi Uniti, tra i principali produttori di petrolio ma stanno diventando anche tra i maggiori per quel che riguarda l’energia solare. E, in futuro, venderanno questo tipo di energia”.

E l’altra componente?

“Parallelamente, gli impatti del cambiamento climatico sono molto più veloci di quanto si pensasse. Il che implica rischi geopolitici molto gravi, visto che coinvolgono anche l’Africa subsahariana. Lì, il collasso delle produzioni agricole, in situazioni già estremamente povere e instabili politicamente, potrebbe avere un impatto devastante anche sull’Europa, visto che i due continenti sono collegati anche sul piano climatico. Ci sono poi le tecniche per imparare a prevedere su scale più corte e per gestire meglio le risorse in situazioni più complesse”.

Un effetto più lampante dei cambiamenti climatici è quello di avere, da qui a qualche anno, anche un ambiente diverso. C’è il rischio di vedere un Mediterraneo senza la tipica macchia?

“C’è una tendenza all’inaridimento. E questo non è attribuibile solo al cambiamento climatico ma anche alla gestione del territorio che, negli anni scorsi, è stata meno oculata di quanto avrebbe dovuto. Le grandi piantagioni di pini, che bruciano come fiammiferi, alla prevenzione degli incendi non fanno bene. La gestione del territorio dev’essere valutata con maggiore attenzione, proprio per evitare disastri. Spesso si dice che, lungo i fiumi, non bisogna piantare vegetazioni. Eppure i salici si piegano sotto la piena, rallentandola. I pioppi vengono strappati via e creano dighe involontarie. Qui entra in gioco tutta la questione delle soluzioni basate sulla natura, che permettono di stabilizzare l’ambiente utilizzando componenti naturali. E questo è un ambito essenziale”.

Abbiamo parlato di questioni geopolitiche: l’accesso idrico è già ora fonte di instabilità, soprattutto per le popolazioni del Nord Africa…

“Noi parliamo spesso di migrazioni dal nostro punto di vista. In Europa vediamo l’immigrazione transnazionale ma, un’altra tematica importantissima, è lo spostamento all’interno della stessa nazione, di persone che devono lasciare le proprie regioni perché diventate inadatte alla sopravvivenza, anche da un punto di vista climatico. Tutto questo si mescola e crea un groviglio difficile da districare ma c’è chi dedica la sua ricerca anche a questo ambito”.

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