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La luce della legalità che contrasta le mafie

L'intervista di Interris.it al dottor Giuseppe Maria Ayala in occasione della Giornata della Memoria delle vittime innocenti di mafia

Oggi ricorre la XXVII edizione della Giornata della Memoria e dell’Impegno in ricordo delle vittime innocenti delle mafie celebrata per la prima volta nel 1996. Questo giorno ha un grande valore simbolico in quanto, con l’inizio della primavera, si intende rinnovare la nuova stagione della verità e della giustizia onorando la memoria delle vittime di mafia per gettare il seme di una nuova speranza che abbia al centro il valore della legalità. Interris.it, in occasione di tale giornata, ha avuto l’onore di intervistare il dottor Giuseppe Maria Ayala – magistrato, collega e amico di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino – il quale ha scritto alcune delle pagine più importanti e memorabili della lotta alla mafia, tra cui il maxiprocesso di Palermo che ha segnato un momento di fondamentale importanza nell’affermazione della legalità nel contrasto al fenomeno mafioso. È stato senatore e membro della Commissione Giustizia nonché Sottosegretario al Ministero di Grazia e Giustizia dal 1996 al 2000.

Corruzione

L’intervista

Qual è, per Lei, il significato più profondo della Giornata della Memoria e dell’Impegno in ricordo delle vittime innocenti di mafia?

“Il ricordo di quei sacrifici deve servire soprattutto ai giovani, a capire come la battaglia – in generale per la legalità – e per sconfiggere finalmente queste organizzazioni criminali che in Italia storicamente sono presenti non soltanto nelle regioni del Sud ma si sono estese in tutto il paese. È una battaglia di civiltà che rientra nel quadro più generale di restituire dignità a questo Paese. Credo che il ricordo abbia a che fare con la memoria, cioè non si può valutare bene il presente e meno che mai immaginare il futuro se non si ha ben chiaro ciò che è accaduto prima. Il ricordo è la base fondamentale per costruire un avvenire migliore”.

Giovanni Falcone e Paolo Borsellino sono due figure fondamentali nella lotta alla mafia con cui Lei ha avuto il privilegio di collaborare, quale insegnamento ci hanno lasciato? Che cosa ricorda della loro amicizia?

“Nella mia vita ho avuto un rapporto di amicizia molto forte con entrambi, però Paolo Borsellino nel 1986 fu trasferito a Marsala quindi il nostro rapporto è durato meno, mentre quello con Giovanni Falcone è durato per più di dieci anni, anche quando ci siamo trasferiti a Roma avevamo sempre contatti. Dico sempre che, l’avere conosciuto, l’essere diventato amico ed avere lavorato con loro mi ha cambiato la vita perché, partivo forse bene come idee e valori in cui mi riconoscevo, però da loro ho imparato moltissimo, soprattutto la serietà dell’impegno, l’equilibrio, la misura che sono delle doti fondamentali per i magistrati. Loro non erano due eroi, sono stati due martiri. Erano due Uomini con la u maiuscola perché, pur essendo molto semplici – anche schivi se vogliamo – tutt’altro che sensibili ai riflettori mediatici, erano due persone che ritengo un privilegio aver avuto vicino a me ed aver accompagnato per tanti anni. La loro scomparsa, che quest’anno è diventata trentennale, certe volte mi sorprendo anche io, me li sento ancora vicini. Molte volte mi capita di pensare a Giovanni e a Paolo, me li porto dentro, credo che questo sia del tutto normale quando si è vissuta insieme un’esperienza come quella che abbiamo vissuto. Due grandi uomini”.

Il maxiprocesso in cui Lei era Pubblico Ministero ha segnato un momento di fondamentale importanza nella lotta alla mafia, quale insegnamento ci lascia oggi?

“Il maxiprocesso è stato un processo di proporzioni enormi con 475 imputati, furono inflitti 19 ergastoli a tutti i capi di Cosa Nostra e, agli altri imputati, 2665 anni di carcere. Già questo lo rende un processo unico nella storia giudiziaria italiana ma, la cosa più importante è che, grazie alle indagini dei giudici istruttori che abbiamo ricordato, quella sentenza è la base per un risultato che sembrava, fino a qualche anno prima, incredibile, cioè la conoscenza approfondita del fenomeno mafioso, delle sue articolazioni e dei suoi meccanismi interni. È stato un grande lascito, non solo per la società italiana, ma soprattutto per i magistrati – colleghi più giovani di noi – che hanno continuato il nostro lavoro e si sono avvalsi di una base di conoscenza del fenomeno che noi non avevamo. Noi l’abbiamo dovuta creare, aiutati dalle straordinarie indagini della polizia giudiziaria e dai collaboratori di giustizia. Il lascito più importante di quel processo è che li c’è scritto ciò che c’è da sapere sulla mafia, il che ovviamente è stato di grande utilità per i colleghi magistrati che hanno continuato il nostro lavoro, ma direi anche per la società intera perché – in Sicilia – fino alla fine degli anni ’70 ed ancora nei primi anni ’80, c’era ancora qualcuno il quale dubitava addirittura che la mafia esistesse e fosse un fenomeno criminale come tanti altri che, più o meno in tutte le parti del mondo, si trovano. Tale sentenza segna un momento storico, da quel momento in poi sappiamo che cos’è la mafia e quindi dovremo riuscire – e in parte ci siamo riusciti – a combatterla con maggiore efficienza”.

Agenti della Dia (immagine di repertorio)

In che modo la mafia oggi ha cambiato volto e modo di operare?

“La cosa più evidente – e direi anche per fortuna – è che non uccide più. Questo è un dato fondamentale perché la stessa ha capito che – il folle tentativo che faceva capo soprattutto a Riina ma anche a Provenzano – di contrapporsi militarmente allo Stato uccidendone i servitori che avevano il torto di fare bene il proprio dovere e quindi di disturbare gli interessi mafiosi. Questa strategia non ha pagato e quindi loro sono tornati alla vecchia regola tradizionale, la quale appunto non prevedeva l’uccisione di servitori dello Stato. Sono tornati a una forma che io chiamo di clandestinizzazione, la quale fa parte della storia della mafia e che non ci deve illudere sul fatto che la mafia sia scomparsa ma sia particolarmente indebolita perché non ha più i riflettori accesi a seguito dei tragici eventi che abbiamo vissuto e dobbiamo sempre ricordare. Secondo me però, la mafia non è in buona salute; faccio sempre questo esempio – guai a pensare che è stata sconfitta perché non è vero – la stessa non è ricoverata intubata ma è ricoverata in corsia per accertamenti, non sta bene, la sua salute non è quella degli anni precedenti. Speriamo che, su questa strada, si possa arrivare a quell’obiettivo che Giovanni Falcone giustamente indicò dicendo: la mafia, per quanto deteriore, è pur sempre un fenomeno umano e tutti i fenomeni umani hanno un inizio, uno svolgimento e una fine. Spero che, il giorno in cui riusciremo a sconfiggerla, io sia ancora su questa terra, anche se ho qualche dubbio, ci vuole ancora del tempo”.

L’attuale normativa per contrastare il crimine organizzato, secondo Lei, è adeguata oppure sono necessarie delle integrazioni?

“Da un punto di vista normativo noi abbiamo vissuto la nascita e la crescita di questa normativa. Dico sempre, quando incontro molto spesso gli studenti in tutta Italia, che paradossalmente questo fenomeno il quale – a dir poco – ha un secolo e mezzo di vita sino al 1982 non compariva nel Codice Penale italiano, non ci si crede. Fino al varo della legge che inserì nello stesso il famoso 416 bis ossia l’associazione a delinquere di stampo mafioso nel ’82 la parola mafia non era appunto presente nel Codice Penale. Sulla legislazione successiva complessivamente do un giudizio molto positivo sulla normativa che, negli anni, a partire dall’82, è stata varata in questo Paese. Dal punto di vista normativo credo che siamo molto attrezzati, il problema poi è applicare le leggi nella maniera più efficiente possibile, ma questo è un altro discorso”.

Quale messaggio vorrebbe lanciare alle giovani generazioni sul tema del contrasto alle mafie?

“Il messaggio che io lancio ai giovani è quello di credere che una società civile, democratica e moderna si fonda soprattutto su una scelta fondamentale che riguarda tutti noi: il rispetto delle regole e la legalità, un patrimonio che, in questo paese, purtroppo non possiamo dire che sia vivo e vitale. Nelle classifiche internazionali noi siamo l’ultimo tra i paesi europei ma anche dietro ad altri paesi. Quindi, i giovani devono imparare che la democrazia ci regala diritti che in altri paesi – l’attualità di questi giorni lo conferma – neanche si sognano. I diritti però vanno di pari passo con i doveri, se noi non adempiamo ai nostri doveri – anche i più semplici – di cittadini che si ispirano al rispetto delle regole, indeboliamo anche i diritti di cui siamo titolari. Questa è la vera scommessa e riguarda ovviamente la quotidianità della vita ma anche il contrasto a fenomeni come quello mafioso”.

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