Il termine “workaholic”, sintesi fra work (lavoro) e alcoholic (alcolizzato), è utilizzato per definire l’ubriacatura e la dipendenza da lavoro tipiche del mondo occidentale moderno.
Il vocabolo è stato coniato da Wayne Oates, psicologo statunitense, nel 1971, attraverso il libro “Confessions of a workaholic”. La locuzione “work addiction”, utilizzata in alcuni casi, ha lo stesso significato di dipendenza.
Per l’ubriaco da lavoro, l’unico tipo di tempo contemplato è quello lavorativo e non ne considera altri, deplorando, nella sua ossessione, coloro che si dilettano allo svago e al tempo libero. La condizione del workaholic va oltre quella, già pesante e maniacale, che in passato si definiva con il termine di “stacanovista”.
Il ricorso straordinario e diffuso al “lavoro agile” durante tutto l’anno 2020. ha modificato il quotidiano di molti lavoratori, dilatando tempi e pause. Il tutto sino a una notevole mescolanza e alternanza fra tempo lavorativo e tempo libero o privato. In tale situazione, amplificata dall’emergenza e da molteplici dubbi, il workaholism ha avuto maggiore diffusione e ha “contagiato” parecchie nuove vittime che mai lo avrebbero immaginato.
Il soggetto affetto da workaholism tendeva già in passato a confondere il rapporto lavoro-casa: l’ambiente professionale coinvolgeva e annullava qualsiasi altra attività, familiare o sociale. Il ricorso deciso e rapido allo smart working e alle videoconferenze, alle riunioni su Zoom e altre piattaforme, ha esasperato la dipendenza da lavoro e la confusione fra i tempi del quotidiano.
Tali tempi, dilatati, intramezzati da impegni domestici, hanno protratto l’orario di lavoro oltremisura, rendendo il lavoratore operativo quasi durante tutto l’arco della giornata. Tale dipendenza, oltre a escludere dalla famiglia e dalla socialità, ha riflessi psichici e fisici, relegando il soggetto in uno stato di stress, di ansia e a elevato rischio d’infarto (quello che in Giappone, con il termine “Karōshi”, indica la morte per eccesso di lavoro). Rimanendo in terra nipponica, la depressione per il mancato raggiungimento del carico di lavoro autoimposto, spinge al suicidio, al “karo-jisatsu”.
In merito allo stress da lavoro-correlato (SLC), l’Inail, al link https://www.inail.it/cs/internet/attivita/ricerca-e-tecnologia/area-salute-sul-lavoro/rischi-psicosociali-e-tutela-dei-lavoratori-vulnerabili/rischio-stress-lavoro-correlato.html, afferma “Secondo l’Accordo Europeo sullo stress lavoro correlato del 2004, lo stress è una condizione che può essere accompagnata da disturbi o disfunzioni di natura fisica, psicologica o sociale ed è conseguenza del fatto che taluni individui non si sentono in grado di corrispondere alle richieste o alle aspettative riposte in loro”.
L’agenzia europea per la sicurezza e la salute sul lavoro, al link https://osha.europa.eu/it/themes/psychosocial-risks-and-stress, precisa “I rischi psicosociali e lo stress lavoro-correlato rappresentano una delle sfide principali con cui è necessario confrontarsi nel campo della salute e della sicurezza sul lavoro in quanto hanno considerevoli ripercussioni sulla salute delle singole persone, ma anche su quella delle imprese e delle economie nazionali. Circa metà dei lavoratori europei considera lo stress comune nei luoghi di lavoro e ad esso è dovuta quasi la metà di tutte le giornate lavorative perse. Come molte altre questioni riguardanti la salute mentale, spesso lo stress viene frainteso o stigmatizzato. Tuttavia, se li si considera come un problema aziendale anziché una colpa individuale, i rischi psicosociali e lo stress possono essere gestibili come qualsiasi altro rischio per la salute e la sicurezza sul luogo di lavoro […] I rischi psicosociali derivano da inadeguate modalità di progettazione, organizzazione e gestione del lavoro e da un contesto lavorativo socialmente mediocre e possono avere conseguenze psicologiche, fisiche e sociali negative, come stress, esaurimento o depressione connessi al lavoro. Alcuni esempi di condizioni di lavoro che comportano rischi psicosociali sono: carichi di lavoro eccessivi; richieste contrastanti e mancanza di chiarezza sui ruoli; scarso coinvolgimento nei processi decisionali che riguardano i lavoratori e mancanza di influenza sul modo in cui il lavoro viene svolto; gestione inadeguata dei cambiamenti organizzativi, precarietà del lavoro; comunicazione inefficace, mancanza di sostegno da parte dei colleghi o dei superiori; molestie psicologiche e sessuali, violenza da parte di terzi […] I lavoratori soffrono di stress quando le richieste della loro attività sono eccessive e più grandi della loro capacità di farvi fronte. Oltre ai problemi di salute mentale, i lavoratori sottoposti a stress prolungato possono sviluppare gravi problemi di salute fisica come le malattie cardiovascolari o i disturbi muscoloscheletrici”.
In un articolo del 30 settembre scorso, scritto dallo psicoterapeuta Massimo Servadio, al link https://www.puntosicuro.it/sicurezza-sul-lavoro-C-1/coronavirus-covid19-C-131/lavorare-da-casa-solo-benefici-AR-20463/, si legge “Alcune interviste effettuate a campioni di lavoratori hanno evidenziato come molti di questi: abbiano lavorato almeno un’ora in più al giorno: ossia circa 20 ore (quasi 3 giorni) in più al mese; abbiano iniziato le giornate in anticipo per terminarle più tardi, andando oltre le canoniche 8 ore; si siano sentiti spinti a rispondere più rapidamente e ad essere disponibili online più a lungo del normale. Ancora e più in generale: si siano sentiti più ansiosi e stressati per il proprio lavoro rispetto a prima”.
La testata digitale “Il Post”, a proposito del ricorso al lavoro agile, ricorda i dati dell’Istat. Al link https://www.ilpost.it/2020/10/27/aziende-smart-working-italia/, si legge, infatti, “Una ricerca dell’ISTAT uscita a giugno: il 90 per cento delle grandi imprese italiane (cioè con più di 250 addetti) e il 73 per cento delle imprese di dimensione media (50-249 addetti) hanno introdotto o esteso lo smart working durante l’emergenza, contro il 37 per cento delle piccole (10-49 addetti) e il 18 per cento delle microimprese (3-9 addetti)”.
Nel 1996, l’argomento e le ripercussioni familiari connesse, sono state affrontate in un film, dal titolo “Workaholic”. Cesare Guerreschi, psicoterapeuta, è l’autore del libro “Workaholic. Dipendenza da lavoro: come curarla”, pubblicato nel 2009 da Guerini e Associati.
È opportuno non dimenticare il contributo del filosofo greco Aristotele “Lo scopo del lavoro è quello di guadagnarsi del tempo libero”.
Le motivazioni alla base del “maniaco del lavoro” sono le stesse del passato ma sono state amplificate dalla pandemia. Le cause riguardavano forme patogene e compulsive fuori controllo e indipendenti dai risultati e dagli obiettivi raggiunti oppure il perfezionismo, la smania di apparire, la brama di far carriera, altre volte il bisogno di ricavare maggiori introiti. Quest’ultima motivazione è quella che, senz’altro, ha costretto molti lavoratori, in virtù delle pressanti difficoltà economiche causate dal Coronavirus, di produrre di più, nei limiti possibili, cercando anche nuove strade e fonti di guadagno. In questo caso, i lavoratori costretti al “massacro” dall’emergenza non sono soggetti a dipendenza (né, in genere, all’accumulo di ricchezze). Il loro obiettivo è procedere in urgenza, temporanea, finché non si ristabilirà una situazione normale, nella speranza che avvenga presto. Occorrerà evitare che la tendenza provvisoria a sovraccaricarsi di lavoro, seppur per scopi pratici di sostentamento familiare e personale, non si trasformi in un modus vivendi e rimanga un tratto patologico del quotidiano.
La pandemia, prefiggendosi di rendere gli ultimi sempre più ultimi e sempre più numerosi, è il volano criminale che si nutre anche della dipendenza da lavoro, sia quella nata per necessità sia quella derivata da stress, ansie, paure immotivate o ambizione.