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“L’alfabeto dell’uomo”: intervista al cardinale Gianfranco Ravasi

Interris.it ha intervistato il cardinale Gianfranco Ravasi in occasione dell'uscita del suo ultimo libro, "L'alfabeto dell'uomo", edizioni San Paolo

Il cardinale Gianfranco Ravasi nel libro “L’alfabeto dell’uomo” mostra magistralmente come “ogni vizio, sboccia sempre da una virtù che viene calpestata”. L’autore conduce il lettore – dapprima, tra i vizi capitali “col loro corteo di degenerazioni” per poi dischiudere “l’orizzonte luminoso delle virtù” – seguendo la tradizione che si sostanzia nel “percorso che parte dall’abisso infernale, ossia dall’oscurità, per ascendere verso la vetta della luce”. Prassi che è anche “pedagogica” perché attraverso “la possibilità di essere autocoscienti del male, del peccato, della colpa, si è poi artefici di una trasformazione, di una conversione e della salvezza”. Difatti, nella Bibbia i peccati sono rappresentati, lessicalmente, con delle parole che indicano andare fuori strada; convertirsi è shûb, ossia ritornare, ritornare sulla strada giusta.

Il cardinale Ravasi, nell’incipit dell’intervista, rammenta l’affermazione dello scrittore austriaco Karl Kraus: “Il vizio e la virtù sono parenti, come il carbone e i diamanti perché entrambi hanno come base il carbonio” per poi soffermarsi a discorrere di alcuni vizi e virtù (trattati ad unguem nel libro). Del resto, “il vizio è una virtù deformata che viene degenerata” come avviene, tanto per fare un esempio, quando “dallo sdegno virtuoso contro l’ingiustizia si può scivolare all’ira rabbiosa e sfrenata che è, invece, un vizio capitale”.

Con precipuo riferimento al tema della “giustizia riparativa”, per maggiori approfondimenti, si rinvia al convegno “Delitto, castigo, perdono. Dialogo su pena, giustizia e riconciliazione”, organizzato, lo scorso novembre, dalla Suprema Magistratura ordinaria e dalla Corte di Appello di Roma, unitamente alla fondazione “Il Cortile dei giardini”, presso l’Aula Magna della Corte Suprema di Cassazione.

L’intervista

Sua Eminenza, la superbia – “che nella sua forma conclamate è sovente sorella dell’invidia” – quale virtù calpesta in particolare?

“La superbia è l’autolatria, che però ha alla base la consapevolezza, la coscienza di sé, l’autostima, il riconoscimento del proprio carisma e del proprio talento da sviluppare. Il riconoscimento dei propri doni è un atteggiamento virtuoso, indispensabile per poter operare nella vita e diventa l’orgoglio di essere unici. Tuttavia, nella dimensione della tracotanza e dell’altezzosità, l’orgoglio prepotente diventa vizio e sfocia nella negazione dell’altro, fino alla distruzione dell’altro; l’altro ha solo torto, cioè, è nullo. E questo è il grande rischio anche nel dialogo interculturale. L’arroganza che non riconosce altri volti con altri valori, l’orgoglio che non si rassegna al fatto che esistono persone che lo superano e scatena contro di loro il suo odio, spesso nutrito dalla maldicenza e dalla calunnia, non è altro che l’invidia. Naturalmente, l’invidia ha anche una sua variante tutta particolare, che è la gelosia, la quale porta all’idea che l’altro è un possesso tuo e degenera nella terribile forma dei feminicidi”.

L’avarizia, si oppone alla carità e in questo modo quanto è arida l’esistenza umana?

“L’avarizia ha, alla base, due dimensioni: l’egoismo e l’accumulo dele cose. La prima è una conseguenza di quel vizio capitale primario, la superbia. San Paolo dice, infatti, che l’avarizia è una forma di idolatria. La seconda dimensione è quella che rende la vita arida, spoglia di affetti (i quali sono calibrati sempre sul possesso e quindi sulle cose) ed isola dagli altri: è l’aggrapparsi alle cose, nella convinzione che queste saranno per sempre, per esorcizzare la paura della morte; emblematico è il protagonista della novella “La roba” del Verga”.

Qual è il volto autenticamente umano della virtù cardinale della giustizia?

“Ai nostri giorni, assistiamo ad un fenomeno – come accade attualmente negli Stati Uniti – che la giustizia è decisa, in pratica, sull’arbitrio. Ciò è conseguenza della mancanza di una oggettività della legge morale propria dell’etica kantiana. Pertanto, chi ha il potere può decidere, come affermava Hobbes, nel Leviatano: ‘Auctoritas, non veritas, facit legem’.  Questo è lapidario: è l’autorità che decide, che fa la legge, non la verità in sé. La giustizia è una delle virtù più complesse in assoluto per la sua applicazione. Il punto di partenza lo possiamo rinvenire nell’affermazione di Dostoevskij: ‘Non conoscono la pietà, conoscono solo la giustizia: per questo sono ingiusti'”.

Come diceva la tradizione classica “Summum ius, summa iniuria”.

“La giustizia, quindi, non deve tener conto soltanto della funzione punitiva, ma anche di quella educativa, di riabilitazione del reo. C’è la giustizia, la pena ma anche la conversione, il perdono, la misericordia: la riconciliazione. Tornando a Dostoevskij, non soltanto il binomio delitto-castigo ma un trinomio: delitto-castigo-perdono, cioè la possibilità, anche per il criminale, di poter ritornare, ancora, ad essere persona, a convertirsi. Alla base vi è, allora, la giustizia riparativa, in cui viene data importanza a tutte e tre le parti coinvolte in un crimine: il colpevole, la società e le vittime. Corollario è la questione delle carceri: perché se si considera il carcere mero luogo di castigo (il buttar via la chiave, come spesso dicono alcuni) è evidente il fallimento non solo dello Stato, ma di tutta l’umanità. Occorre, con tutte le difficoltà, con tutti i limiti che comporta, cercare di fare in modo che la vittima e il colpevole si incontrino, perché soprattutto la vittima riesce ad essere più incisiva sul colpevole per educarlo, per trasformarlo. Un esempio di riconciliazione vittima e autore del reato è Agnese Moro, la figlia di Aldo, rapito e ucciso dalle Brigate Rosse dopo 55 giorni di prigionia, che definisce la giustizia riparativa: ‘giustizia del ritorno’ sia per chi ha causato ‘l’orrore dell’irreparabile’ e sia per chi l’ha subito: coloro che ‘ne patiscono le conseguenze durature'”.

La speranza che è una delle tre virtù teologali, ma anche la motivazione profonda di questo anno giubilare, quale appello fa risuonare?   

“C’è un poemetto che ha scritto il poeta francese Charles Peguy, ‘Il portico del mistero della seconda virtù’ che definisce la speranza come la sorella minore rispetto alla fede e alla carità. Paolo dice che ‘nella speranza siamo stati salvati. Ora ciò che si spera, se è visto, non è più oggetto di speranza’. Giovanni aggiunge che ‘la speranza ha in sé un germoglio, un seme di futuro’. La forza della speranza è riuscire a far sì che la fede sia l’amore che proietta, sempre, in avanti, che conduce a non accontentarti mai del tuo presente, che ti fa anche sperare in nuovi cieli e nuova terra. Altrimenti, se noi dovessimo guardare solo il presente, lo sosteniamo con la fede e magari diamo il nostro amore, però alla fine siamo desolati. Quelli che non hanno speranza sono quelli che, di solito, non credono nel futuro, che non si attendono nulla, che non hanno assolutamente fiducia e che sono, pertanto, disperati. Disperati perché non hanno più nessuno da aspettare e non hanno più ideali davanti a sé. La speranza è l’attesa, che è molto più bella, certe volte, del possesso e, sicuramente, molto più forte”.

Quali sono gli altri vizi e virtù generate dalla trasformazione culturale e sociale, dal cambiamento d’epoca, come lo chiama papa Francesco?

“Ci sono ormai campi nei quali non bastano più le virtù tradizionali. Faccio due esempi: l’ambito dell’enciclica ‘Lauadato sì’, dell’ecologia, e quello dell’enciclica ‘Fratelli tutti’, con i temi della giustizia e della carità che riguarda tutto il problema attuale della solidarietà. Dobbiamo veramente identificare nuovi vizi e attualizzarli. Pensiamo soltanto allo scarto: il cibo che viene sprecato; il lavoro sfruttato degli immigrati, dei bambini…o alla pigrizia che, ai nostri giorni, è una forma di apatia, tanto che parlo più di apateismo che di ateismo; il lasciarsi andare: la deriva. E nei giovani, uno degli emblemi è proprio il branco che può anche fare delle cose assurde. Tutte le virtù, al pari dei vizi, devono essere forgiate dai tempi e postulano una riflessione su tutti i condizionamenti della libertà umana che impediscono di dire virtù e di dire giudizio. Vizi e virtù devono essere ininterrottamente affinati e raffinati, perché non basta dichiararle in maniera generale o secondo i canoni tradizionali”.

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