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La Terra dei fuochi, un dramma non solo campano

Inquinamento e malaffare, due piaghe che chiamano a un senso di responsabilità profonda. Perché la salvezza passa da una conversione del cuore. E non solo nella Terra dei fuochi

Accogliendo l’invito del vescovo di Acerra, monsignor Antonio Di Donna, Papa Francesco aveva promesso di venire, domenica 24 maggio 2020, a commemorare il quinto anniversario dell’ enciclica Laudato Sì, in “Terra dei fuochi”. La pandemia non ha reso possibile il viaggio. Francesco, però, ha promesso che tornerà. La visita quindi è solo rimandata.

Il rapporto del Papa con la “Terra dei fuochi” inizia diversi anni fa quando, nel giro di poche settimane, più di 80 mila cartoline – sulle quali erano ritratte alcune giovani “mamme – orfane” con in braccio la foto del figlioletto morto di cancro – gli pervennero in Vaticano. Era l’ennesimo grido di aiuto del nostro popolo, questa volta rivolto al Papa. Già il 14 maggio del 2014, il Papa in piazza San Pietro, ci aveva rivolto queste parole: «Il rispetto e la dignità della persona umana e il diritto alla salute viene prima di ogni altro interesse». L’anno dopo faceva dono al mondo dell’enciclica LaudatoSì, sulla cura del Creato. Enciclica – come ebbe modo di rivelare in seguito – che gli fu ispirata proprio dal dramma della “terra dei fuochi”. Per “Terra dei fuochi” si intende il vasto, fertilissimo, territorio a cavallo delle province di Napoli e Caserta.

Don Maurizio Patriciello, sacerdote nella Terra dei fuochi

La Campania, negli ultimi 30 anni, è diventata lo sversatoio di tonnellate di rifiuti industriali altamente tossici e nocivi per la salute, proveniente in gran parte dal Nord e Centro Italia, oltre a quelle prodotte dalle tante piccole e medio aziende di indumenti e pellami campane che lavorano “in nero”. Tutto ciò è stato possibile grazie a un patto scellerato tra la camorra, in particolare quella del “clan dei casalesi”. Faccendieri smaliziati e industriali disonesti che non si sono fatti scrupolo – come scrissero i vescovi campani – di avvelenare la bella, unica e fertilissima “Campania felix”. Sui roghi brucia tutto ciò che è infiammabile e che deve scomparire per non procurare all’imprenditore disonesto problemi con la giustizia: pneumatici, ritagli di pellami e di tessuti, collanti, coloranti, diluenti, solventi, vernici e tante altre cose.

Il discorso è semplice. Gli scarti vengono affidati a poveri disoccupati, immigrati, rom, che per pochi spiccioli li trasportano in campagna e gli danno fuoco. Tutto ciò che non può bruciare, invece, viene occultato nelle discariche per i rifiuti urbani, nelle cave, nei terreni agricoli. Nelle fogne. Nei fiumi. Nei “Regi Lagni”. In mare. Grazie anche alle battaglie dei tanti volontari campani che hanno dato al mondo un esempio altissimo di civiltà e di impegno, grazie all’attenzione della Chiesa campana – i cui vescovi firmarono, negli anni scorsi ben due documenti e una nota per incitare chi aveva la responsabilità a fare presto e bene quello che andava fatto – l’Italia si è munita di una legge sui reati ambientali, che, strano ma vero, fino a cinque anni fa, non esisteva. La legge 68 del 22 maggio 2015 è, insieme alla enciclica Laudato Sì, il regalo più bello che la nostra sofferenza ha fatto all’Italia e al mondo.

Ma quello dell’inquinamento è un problema solo campano? Consiglio chiunque a rinunciare a questa pia e pericolosa illusione. Per farlo, mi servo delle parole dell’allora presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano: « Quanto accaduto in Campania, nella cosiddetta “Terra dei fuochi” è emblema del degrado italiano, la rappresentazione di una drammatica situazione di uno sfruttamento cinico e senza futuro». Possiamo uscire da questo dramma? Si, se lo vogliamo. Occorre un’ autentica conversione del cuore. Perché solo mettendo al centro di ogni interesse e di ogni politica la persona umana e i suoi inalienabili diritti e ritornando a desiderare di contemplare il bello, è possibile un vero contrasto allo scempio ambientale.

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