La grande prigione del mosaico siriano

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C’era una Siria, mosaico di religioni ed etnie, esempio di convivenza e laicità per tutto il Medio Oriente. Una Siria in cui i sunniti, sciiti, alauiti, armeni, curdi, melchiti, ortodossi e cattolici animavano insieme villaggi, quartieri, fabbriche, scuole e persino le festività religiose. In questa Siria i cristiani arabi hanno sempre giocato un ruolo chiave, di ponte tra occidente e medio oriente; sono stati collante ed elemento di pacificazione per tutta la società nazionale, grazie alla loro apertura, al loro alto livello di istruzione e al loro dinamismo economico. Questa è la Siria che sta cercando lentamente di scrollarsi di dosso le macerie della lunga guerra per procura (alimentata dai principali attori regionali e mondiali) che ha devastato il Paese dal 2012 e che ancora imperversa nella provincia di Idlib, dove si stanno affrontando l’esercito regolare siriano, sostenuto dalla Russia, e i ribelli che controllano le loro ultime roccaforti e che contano sull’appoggio delle truppe della Turchia.

Emergenza a Idlib

Ora i riflettori di tutto il mondo sono concentrati su questa provincia, confinante con la Turchia, devastata dai combattimenti e dove vivono circa un milione e mezzo di persone. Una popolazione composta in gran parte da sfollati interni (circa 900mila stando alle ultime stime dell’Onu) in grave emergenza umanitaria e che vede la presenza anche di migliaia di stranieri che in questi anni si sono uniti ai tanti gruppi ribelli di matrice islamista.

Una grande prigione

Ma in Siria ci sono altri 20 milioni di persone. Uomini, donne e bambini che vivono nel resto del territorio nazionale, ancora mortificato dalle misure dell’embargo internazionale. Fra Bahjat Elia Karakach, guardiano del convento di Bab Thouma a Damasco, in una recente lettera aperta ha descritto così la condizione di tutti i suoi connazionali: “Viviamo dal 2011 in una grande prigione, imposta dalle politiche occidentali, dai Paesi che si arrogano il ruolo di difensori dei diritti civili, ma mettono sotto embargo una nazione intera… e sapete perché siamo in questa prigione? Perché vogliamo difendere il nostro bellissimo Paese dai terroristi che una volta volevano trasformare la Siria in uno Stato oscurantista”.

Oltre i media

Il frate Francescano sottolinea quindi che i grandi mezzi di informazione amano mettere in luce la storia di una bimba morta di freddo o una famiglia costretta a fuggire dai bombardamenti, “ma questi stessi mezzi non vi parlano dei milioni di siriani che soffrono il freddo per mancanza di gasolio, che non sempre possono godere un piatto caldo per mancanza di gas da cucina. Non vi parlano degli studenti che non possono studiare dopo il tramonto per mancanza di corrente elettrica, non vi parlano degli anziani abbandonati perché i loro figli sono dovuti emigrare”. “I grandi mezzi di informazione non vi parleranno neanche della gioia degli aleppini da quando l’esercito nazionale è riuscito a liberare i sobborghi ovest di Aleppo – aggiunge ancora il religioso siriano –, dai quali piovevano i mortai sui civili. Non vi parleranno mai della gioia di tutti i siriani per la riapertura dell’autostrada Damasco-Aleppo e della rimessa in funzione dell’aeroporto internazionale di Aleppo che ha dato speranza di una possibile ripresa economica… non vi parleranno dell’annuncio della riparazione della via ferroviaria tra la capitale siriana (Damasco) e la capitale industriale (Aleppo) e della possibilità di viaggiare in treno dopo nove anni di guerra”.


Foto © Latin Parish of St. Francis Aleppo

La testimonianza

Ma cosa succede in quei territori ancora occupati dalle milizie ribelli? E come sopravvivono le piccole comunità cristiane nella provincia di Idlib? Per farcene un’idea Interris.it ha sentito Naman Tarcha, giornalista e tv reporter siriano di nascita e italiano di adozione. Tarcha è nato e cresciuto ad Aleppo, la seconda città siriana (prima per produzione industriale) che dista poche decine di chilometri dalla provincia di Idlib. “Tanti cittadini di Aleppo hanno origini nel territorio di Idlib, lì hanno ancora le case e campi coltivati dai nonni”, il reporter spiega così quel rapporto profondo che lega i territori nel nord della Siria. Tarcha racconta quindi dei villaggi cristiani Knayeh, Yacoubieh e Sdeide, che ricadono nelle aree controllate dai gruppi integralisti. Qui, sono state tolte le croci e coperti tutti i simboli religiosi e le vetrate delle chiese, mentre pochi pastori francescani  custodiscono questo piccolo di fratelli nella fede. “In questi luoghi i cristiani hanno subito la confisca di ogni bene, per questo molti sono scappati ad Aleppo o sono emigrati”, riferisce ancora il reporter siriano che poi ricorda che ad Idlib sono stati trasferiti, secondo gli accordi, tutti i ribelli e i jihadisti che fuggivano dalle aree che venivano mano a mano riconquistate dall’esercito governativo.


Foto © Latin Parish of St. Francis Aleppo

Le tracce cristiane

Secondo Tarcha le truppe di Damasco hanno ripreso il controllo di circa il 50% della provincia e molti profughi sono andati verso il confine turco, ma ci tiene a sottolineare che dei migranti arrivati al confine con la Grecia meno del 30% è di origine siriana. “Tra Libano, Giordania e Turchia – aggiunge – ci sono circa 4 milioni di profughi siriani, ma si dovrebbe parlare anche delle condizioni delle altre 20 milioni di persone che sono rimaste nel Paese tra mille difficoltà”. Proprio il nord della Siria ora interessato dai combattimenti, ricorda ancora Tarcha, è stato una delle prime regioni del mondo dove ha prolificato la cristianità: “Ci sono tanti resti di chiese dei primi secoli del cristianesimo, c’è la famosa basilica di San Simeone Stilita, protetta dall’Unesco, e poi verso il confine con la Turchia c’era il monastero di Brad in cui visse San Maroun, che fondò la Chiesa Maronita”.

Nel Nord

Il nord della Siria subì anche le persecuzioni dell’impero ottomano contro gli armeni che portano al drammatico genocidio compiuto tra il 1915 e il 1916. Il giornalista sottolinea che anche in quella situazione il popolo siriano seppe dare dimostrazione di grande unità: “Le famiglie musulmane hanno salvato molti cristiani nascondendoli nelle loro case, mettendosi contro le autorità ottomane che professavano la loro stessa religione”.

Prima della guerra

Prima della guerra iniziata nel 2012 i cristiani in Siria erano circa il 10% della popolazione, una percentuale che si è ridotta di molto con l’esodo iniziato con l’avanzata dello Stato islamico e degli altri gruppi jihadisti. Eppure malgrado tutto ad Aleppo sono tornati a festeggiare il Natale e la Pasqua insieme a tutta la comunità locale. “Prima della guerra – racconta Tarcha – i miei amici musulmani venivano persino alla Messa di Natale ed aspettavano la mezzanotte”. Nel racconto degli anni della gioventù del giornalista emerge un Aleppo con una prestigiosa scuola armena, che accoglieva studenti di tutte le confessioni, e con l’università frequentata da ragazze vestivano all’occidentale. Una città dove si svolgevano processioni e cerimonie pubbliche di ogni religione.

Lo sforzo della rinascita

“Noi cristiani ci sentiamo traditi dall’Occidente – spiega infine Tarcha – i nostri connazionali musulmani ci dicono: guardate come vi hanno abbandonato i vostri fratelli nella fede”. Secondo il reporter diventa difficile anche continuare a svolgere quel ruolo di ponte che hanno sempre avuto i cristiani: “Gli occidentali ci hanno sempre visto come arabi e mediorientali, mentre i musulmani ci hanno sempre considerato con un elemento della cultura cristiana occidentale, questo però è stato anche motivo di forza ed orgoglio”. “Noi cristiani – conclude – abbiamo sempre avuto un ruolo in questo Paese, nell’VIII secolo San Giovanni Damasceno fu dottore della Chiesa e allo stesso tempo consigliere del Califfo che guidava la regione. Adesso dobbiamo metterci a disposizione la pacificazione”. Di sicuro lo sforzo per la rinascita dovrà essere sostenuto da tutta la comunità internazionale perché come ha in più occasioni affermato Papa Francesco, “non possiamo rassegnarci ad un Medio Oriente senza cristiani”.

Marco Guerra: