Un Paese in ginocchio, devastato da disoccupazione, recessione, svalutazione della valuta e crisi economica. Un’esplosione che ha spazzato via il principale nucleo operativo dell’intero Stato, dove commercio e stoccaggio delle merci copriva finora la quasi totalità dell’economia nazionale. Questa la fotografia del Libano che, a quattro giorni dal disastro di Beirut, scava ancora fra le macerie fumanti del porto, in attesa di definire i bilanci e dar spazio a un cordoglio che, solo per il momento, accantonerà le proteste di un Paese sull’orlo del collasso. Una fase di stallo, di un’esasperazione popolare ancora sul punto di esplodere, forse con più violenza di prima. Interris.it fa il punto con Federico Borsari, research assistant dell’Ispi per Nord Africa e Medio Oriente.
Dottor Borsari, l’incidente di Beirut va a inserirsi in un contesto già drammatico per la popolazione libanese, sfiancata dalla crisi economica e da un senso di sfiducia verso la classe dirigente. Che Paese è il Libano dopo la tragedia?
“Si tratta di un avvenimento che non può che peggiorare la situazione già molto delicata che c’era nel Paese. E la rende davvero molto complicata, se non disperata. Soprattutto l’aspetto che più peggiora, o che va a rinforzare questo avvenimento, è sicuramente la crisi economica. La peggiore dalla fine della guerra civile degli anni 90. Perché i dati che abbiamo parlano di un Paese sull’orlo del collasso finanziario. Il debito pubblico sta raggiungendo una percentuale di Pil preoccupante, addirittura il 161%, molto di più della stima del Fim dello scorso anno (150%). Allo stesso tempo, abbiamo gli effetti dovuti al coronavirus e alla pandemia, che hanno bloccato il commercio (su cui il Libano basa buona parte dell’economia) e anche il turismo, che porterà per il 2020 un crollo del Pil di oltre il 12%”.
Disagi sociali che si accompagnano a una recessione sempre più accentuata…
“Allo stesso tempo c’è una crisi monetaria interna per la mancanza di dollari nel mercato libanese. La lira libanese sta perdendo valore e, allo stesso tempo, si sta indebolendo nei confronti del dollaro. Il cambio ufficiale è ora di 10 mila lire, a febbraio era già di 4 mila rispetto alle precedenti 1.500. La crisi interna è grave e questo è dovuto al fatto che l’economia libanese si basa su criteri di gestione della cosa pubblica molto poco trasparenti”.
Cioè?
“E’ un’economia incentrata su clientelismo e corruzione, anche per un sistema politico che ha racchiuso il controllo dell’attività economica a poche personalità, legate ai partiti politici. E’ un problema strutturale. Oltre a questo, il problema del coronavirus, che ha rallentato ulteriormente l’economia. La classe politica, poi, ha interessi a mantenere questo status quo, e questo non fa che alimentare l’incapacità della stessa classe politica di apportare riforme che possano portare al miglioramento dell’economia”.
Nei mesi scorsi le proteste erano state trasversali all’interno della popolazione, dai più giovani ai ceti medi. Inoltre, nel Paese agiscono le scorie della guerra civile di inizio anni Novanta…
“Il problema del Libano è proprio la scomparsa della classe media, nonostante avesse una grande importanza. Nell’ultimo anno una larga fascia della popolazione si sta impoverendo. La partecipazione alla protesta è sempre più ampia nelle classi medie, mentre le persone molto ricche rimangono tali. Il divario è quindi sempre più netto. E’ un Paese che non è riuscito a rimarginare le proprie ferite, soprattutto quelle della guerra civile, chiuse con un accordo sommario fra i gruppi all’interno del Paese, che non ha portato una coesione sociale sostenibile, anzi ha cementato divisioni interne. Questo avvenimento, ancora non ben chiaro, certifica la stanchezza della popolazione e, se la classe politica continuerà a restare al potere senza fare nulla (a ora non c’è nessuna dimissione, a parte il ministro degli Affari esteri), sarà un indicatore che porterà a nuove e violente proteste nei prossimi mesi. E’ un Paese che rischia di collassare su sé stesso”.
Molto dipenderà dagli aiuti internazionali. Basteranno a tamponare l’emorragia economica?
“La Comunità internazionale si sta muovendo più in fretta, il Libano sta negoziando ancora con il Fim per un prestito ma la discussione è in fase di stallo. Molte richieste sono considerate fuori portata. Dipende anche quando la Comunità internazionale sarà in grado e disposta ad aiutare il Libano, anche per il dilagante contagio da Covid soprattutto nella zona del Levante”.
Immediatamente dopo l’incidente di Beirut, sia Israele che Hezbollah hanno smentito coinvolgimenti. Anzi, Tel Aviv ha fatto sapere di essere disponibile a erogare aiuti umanitari. Esiste il rischio che gli attriti fra le due fazioni crei un ulteriore fattore di instabilità anche in una fase di assistenza?
“Ci sono state dichiarazioni di supporto da parte di Israele, poi è chiaro che allo stesso tempo c’è questa rivalità e una complessa situazione di tensione latente. E’ un altro fattore di instabilità, nel senso che una guerra fra loro penso sia improbabile ma non impossibile. Il maggiore fattore di instabilità è l’immobilismo della classe politica, volontariamente cieca a quanto sta avvenendo. Il primo ostacolo a una riforma è proprio questo. Le proteste sono sempre più partecipate, iniziate di nuovo subito dopo la riapertura dopo il lockdown. La gente non si tira indietro, anche i giovani sono sempre presenti. E’ un Paese prigioniero di questo sistema creato dalla guerra civile del 1990. Israele sa bene quanto sia delicata la situazione in Libano ed è improbabile che succeda qualcosa con Hezbollah, che si ritrova a dover sostenere una questione di legittimità interna. E non avrebbe potuto diventare così influente senza il supporto dei partiti politici. Dopo il cordoglio le proteste riprenderanno più forti”.
Il porto di Beirut non è solo il più importante del Paese ma anche uno dei maggiori nel Mediterraneo occidentale, con una capacità che non possiede nessun altro omologo libanese. Quanto inciderà l’inservibilità del porto su un Paese importatore come il Libano?
“Il Libano dipende quasi totalmente dalle importazioni di cibo. Il porto di Beirut è fuori uso e lo sarà per moltissimi mesi. Scarico e stoccaggio sono stati spostati nel porto di Tripoli, più a nord, ma non ha la stessa capacità. Bisognerà vedere quanto potrà aiutare la Comunità internazionale”.